L'Universo è fatto di due Mondi, quello dei Biota e quello degli Abiota; quello dei Biota è il Mondo vivente, che si riproduce, quello degli Abiota è l'altro, quello dei Minerali, dei Gas, dei Raggi di Luce, dei Campi di Forza. Parliamo dei Biota. Il Mondo dei Biota è fatto di due Alberi, quello dei Ribosa e quello degli Aribosa; quello dei Ribosa è l'Albero dei viventi che si riproducono utilizzando un acido ribonucleico, l'altro quello di chi ne fa a meno come i Prioni. Lasciamolo da parte. L'Albero dei Ribosa è fatto di due Imperi, quello dei Cytota e quello degli Acytota; quello dei Cytota è l'Albero dei Ribosa che hanno inventato le cellule, l'altro quello di chi le parassita come i Virus. Lasciamoli da parte, e parliamo dei Cytota della Terra che sono gli unici che al momento conosciamo (Acytota e Aribosa non terrestri, almeno fossili, sono stati riscontrati su comete, asteroidi e altri pianeti solari e loro satelliti). L'Impero dei Cytota è fatto di due Domìni, quello degli Eukaryota e quello dei Prokaryota; quello degli Eukaryota è il Dominio dei Cytota nelle cui cellule il materiale ribonucleico è in un nucleo ben definito, l'altro quello con cellule dagli acidi presenti in forma diffusa come i Batteri e gli Archaea. Lasciamoli da parte. Il Dominio degli Eukaryota è fatto di cinque Regni: gli Animali, le Piante, i Funghi, i Cromisti e i Protisti. Parliamo di Animali, cioè degli Eukaryota con differenziamento cellulare, eterotrofi, e mobili durante almeno uno stadio della loro vita. Il Regno Animale è fatto di trentacinque Tipi, uno è quello dei Cordati. Parliamo di quello, cioè degli Animali con una struttura di sostegno interna (o notocorda). Il Tipo dei Cordati è fatto di diciassette Classi, una è quella dei Mammiferi. Parliamo di quella, cioè dei Cordati che allattano la prole...
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Le immagini che ancora in questi giorni di rievocazione, figli e nipoti dei deportati di allora ci restituiscono, strazianti, di madri e padri che ormai caricati a forza su camion e vagoni riescono ad affidare qualcuno dei piccoli a un cristiano coraggioso, a una popolana di coscienza, strappandoselo dal cuore e dagli occhi, sapendo di non rivederlo mai più e solo potendo sperare che avrà così salva la vita dal destino di mattanza certa che tocca loro, e magari anche un’esistenza possibile poi, pur con la ferita insanabile di quella separazione contronatura – mi richiamano involontariamente altre immagini, che ci testimoniano gli scampati ai naufragi dei migranti o alle loro morìe di stenti, freddo, torture e guerra, di altre madri e altri padri che sapendosi finiti a breve lasciano un bimbo o una bimba tra le braccia di chi ha ancora una probabilità benché remota di arrivare, o addirittura almeno di partire da quegli inferni di privazione che sono le loro terre originarie, e si strappano così dall’anima l’amore più grande proprio per amor suo.
E tale cortocircuito struggente, spontaneo, tra i minuti volti neri incrostati di salsedine e paura o emaciati dallo sfinimento delle marce forzate o mezzo assiderati nella neve di rotte impervie e blocchi insensati, e quelli ormai adulti, anzi vecchi, come possono essere le nostre Segre, i nostri Modiano, i nostri Venezia, le nostre Spizzichino, bambini salvati allora, ora coi microfoni davanti a spiegare ad altri giovani cos’è l’orrore – mi suggerisce che l’Europa, macchiatasi della colpa inconcepibilmente grave di aver generato e nutrito in seno l’abominio nazifascista dello sterminio, del genocidio pianificato, dell’assassinio perfino dei neonati, forse troverebbe proprio qui, adesso, in questa chiamata che gli bussa dai bordi, nelle invocazioni disperate dal mare e di là dal mare stremato, dai monti e dall’oltre di montagne armate e valli minate, un’estrema possibilità di riscatto, una tardiva espiazione. E così regalo a me stesso un’immagine dell’avvenire. Vedo anziani commossi, in terra d’Europa ma nati decenni prima in Sirie o Etiopie o Nigerie o Birmanie martoriate, che narrano a scolaresche di fine secolo cosa accadde a un certo punto, dopo tante stragi della migrazione, per una nuova buona volontà dei nostri popoli: che il Vecchio Continente aprì ogni porto, smantellò i confini, che smontò i suoi muri esterni, posti di guardia e torrette, e con quei mattoni fece case per accogliere, scuole per studiare, ospedali per guarire, fabbriche per lavorare; dicono del giorno a partire dal quale, se i bambini in pericolo nel mondo chiedevano aiuto, andava a soccorrerli curando che restassero abbracciati a madri, padri, fratelli, e tutti portava qui, al sicuro nel loro futuro – un futuro in cui uno è diventato scrittore, anziché un corpicino livido spiaggiato, una chirurgo, anziché un grumo congelato di carne e capelli, un altro musicista, anziché un orfanello sbattuto da un CIE all’altro, un’altra ministra, anziché un giocattolo usa e getta per il deep web pedopornografico; e nessuno ha mai più dovuto correre disperatamente soltanto per scampare all’inferno, e dopo morire di indifferenza e autoassoluzione – le nostre – di quando c’era sempre una buona ragione per fare la cosa sbagliata. ...E poi non vedo più niente, tanto che sono contento! La retta suggestione, a coltivarla nella mente e nel cuore, può essere molla per l'azione conseguente. Proviamo a non resisterle, diamoci il tempo per sedercisi accanto. Logica e fantasia – è tutto quel che ci occorre. IL VACCINO
Non c’è solo Schindler’s List, e non c’è solo Se questo è un uomo; non c’è solo il Jüdisches Museum di Berlino, e non c’è solo la casa di Anna Frank ad Amsterdam; e non ci sono solo tutti gli altri luoghi della memoria ricavati da quegli stessi gironi infernali; e tutti gli altri monumenti a quel dolore inaudito innalzati in tutto il Mondo; e tutti gli altri libri, testimoniali o romanzi, scritti su quel male assoluto; e tutte le altre opere di cinema, teatro, musica, arte, poesia, documentali o fantastiche, concepite perché i secoli a partire dal XX dell’Era Volgare non possano mai dire “noi non sapevamo”. Non ci sono solo i numeri dell’orrore, incalcolabili eppure calcolati, certificati, innegabili. Non ci sono solo le indagini inequivocabili, le sentenze inappellabili. Non ci sono solo le storie tramandate a voce, dalla bocca di chi vide all’orecchio di chi vuole ascoltare, e dalla bocca di questi ad altro orecchio, e ancora e ancora e ancora, indimenticabilmente. Non c’è solo tutto questo, che già pesa come un mondo sulle spalle di ogni persona di buona volontà, retto pensiero e azioni conseguenti. No. Oltre le pagine, le pellicole, le pietre, le parole – c’è che erano della mia stessa carne! Ricordate il monologo… Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto terzo, scena prima: E qual è il motivo? Sono un ebreo. Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo? E’ questo, capite? Che fossero ebrei o zingari o disabili nel corpo o nella mente o omosessuali o dissidenti religiosi o oppositori politici o prigionieri di guerra… E’ questo: stessa aria nei loro e nei miei polmoni, le mie stesse labbra quando loro le mossero per l’ultimo sorriso, stesso sale nelle lacrime, il mio e il loro, stessi sogni bambini, stessi ricordi di vecchi, se arrivarono ad esserlo, stessi abbracci, stessi baci, stessa identica capacità di amare, di sperare per amore, per amore soffrire, stesse paure d’ordinario, ma per loro una paura smisurata che io non so, la stessa incapacità di comprendere l’incomprensibile, che loro li inghiottì dopo averli masticati, le corde vocali, le stesse, ma che loro si lacerarono in un urlo che non si estingue mai… Sì, li hanno fatti urlare, a milioni, fino a che la gola gli è scoppiata e gli occhi gli sono esplosi, mostrandogli i loro figli contorcersi tra le fiamme prima di bruciarli essi stessi. Che io, solo per l’eco trascritta, infinitesima, che me ne arriva, già muoio un pezzo. Tanta è la potenza di quel buco nero, indicibile. E un’altra cosa, c’è – che mi prostra l’anima. Millecinquecento anni di cristianesimo tedesco, mille anni di architettura tedesca, di mercantilismo e municipalismo tedesco, cinquecento anni di protestantesimo, di sistema bancario, di professioni liberali, cinquecento anni di pittura tedesca, trecento anni di musica, trecento di filosofia, duecento anni di letteratura tedesca, di organizzazione statale, militare, cento anni di scienza, di industria, di politica, di sindacato, di crescita economica, di emancipazione sociale – tutto questo tempo, solido, fattuale, di rassicurante distanza tra la grande cultura tedesca e la barbarie delle nebbie pre-civili, ebbene non ha minimamente impedito che Auschwitz, che Treblinka, che Bełżec, che Sobibór, che Chełmno, che Majdanek, fossero! Non ha impedito che siano stati – pur essi solamente, quei sei campi principali, in un solo triennio – fauci alacri dello sterminio di tre milioni di esseri umani. Più altrettanti sterminati in Germania, in Austria, in Polonia, in Ungheria, Romania, Croazia, in Italia, nella Francia occupata, nella Grecia occupata, in Boemia, Ucraina, nei Paesi Baltici, ovunque sia arrivata la peste nazista e si sia insediata, perdurante la guerra più distruttiva di sempre da essa peste voluta e innescata. Tutti quei milioni ingoiati dalla morte, intenzionalmente inflitta e ingiustificatamente (pur in tempo di guerra) attraverso le pratiche più atroci. Perpetrate da altri esseri umani, volontariamente. E’ così. I volenterosi carnefici di Hitler (Daniel Goldhagen, 1996) non è solo il titolo agghiacciante e polemico di un testo che ha fatto discutere. Voglio dire – non erano alieni quelli che a milioni approvavano, quelli che a decine di migliaia eseguivano, quelli che a centinaia prendevano le decisioni mostruose causa dell’Olocausto e ne ordinavano l’esecuzione sapendo di poter contare sull’obbedienza convinta dei carnefici e sulla libera approvazione della maggioranza: erano tutti esseri umani, nati e cresciuti al centro del Mondo evoluto! Himmler, Goebbels, Goering, Heydrich, Mengele, Eichmann… tutti. Perfino Hitler fu un essere umano, un Homo sapiens; così come lo sono io, ed è ciascuno di voi. È questo, di insopportabile, che hanno svelato agli occhi dell’Umanità, di sé stessa, il nazismo, la Shoah e l’entusiasmo delle masse per crimini abietti commessi nel nome del razzismo, del nazionalismo, del bellicismo, dell’imperialismo, del conformismo, della grettezza, dell’egoismo, in pieno XX Secolo, acme della modernità, e al centro dell’Europa continente emancipato per definizione; ossia che la Civiltà è ancora soltanto una patina superficiale stesa sul macigno della ferocia, il quale è sempre pronto a muoversi e a rotolare schiacciando ogni progresso umano, specialmente morale, a fatica conquistato dai migliori tra noi e reso pane condiviso grazie a una splendida, costante, critica, fragile impresa collettiva. Dunque mentre il mio corpo soffre solo immaginando quei dolori strazianti, quelle morti inconcepibili, la mia mente geme in prima persona per questo dolorosissimo monito di pericolo mortale. Ecco cosa voglio dire oggi, nel 76° anniversario dell’entrata ad Auschwitz dell’Armata Rossa. E ricordarlo sempre. Mai come balsamo – semmai come vaccino. Io sono il tuo uomo, tu sei la mia donna. (E questo è il massimo della vicinanza tra due umani che non siano l’uno generato dall’altro.)
Ma, comunque, sempre un uomo e una donna siamo. (E questo è il massimo della lontananza tra due individui della nostra strana specie.) Che scherzo ci ha fatto la Natura! Ci ho pensato (vedi post di ieri 24.1, "Crimini e ricatti"), e provo a rispondere.
In effetti se finisce a breve la legislatura e si va al voto, oggi come oggi vince a mani basse una coalizione che peggio di così non riesco a immaginarne: Lega salviniana più Fratelli d'Italia meloniani più la crème della Forza Italia berlusconiana. Però, anche in caso di scioglimento rapido, non si voterebbe proprio domani. Per motivi politici e per motivi sanitari: ci sono ancora troppe deliberazioni da prendere e attuare, in ordine all'epidemia e all'economia, e un governo tecnico dovrebbe esser creato e mantenuto per farlo (oltre che per gestire l'arrivo alle elezioni), e inoltre così come si pensa di rinviare le date delle elezioni regionali e locali già fissate (tra cui le comunali a Roma), anche il voto nazionale sarebbe calendarizzato solo in base all'andamento delle curve Covid. Quindi due soldi di tempo ci starebbero, per fare quel che si può al fine di non lasciare l'Italia in mano alla parte sbagliata senza nemmeno combattere. E cosa si potrebbe fare? La solita cosa (solita nel senso dei desideri decennali, ma del tutto inedita semmai riuscisse una buona volta): un soggetto elettorale radicale e popolare insieme. Ho scritto elettorale, non politico: mi basterebbe (e mi avanzerebbe) fosse anche soltanto un cartello buono per il voto e per un (avvio di) governo del Paese; per creare un soggetto politico hai voglia invece quante idee, quanta forza e quanto tempo occorrano! Perché dico la solita cosa? Perché gli Stati Popolari, promossi da Aboubakar Soumahoro nel 2020 e sostanzialmente lì rimasti (anche per colpa del morbo, d'accordo); e le Sardine di Mattia Sartori e compagni, del 2019, ancora consultabili ma assai limitate pure loro dal blocco delle manifestazioni di piazza; e La Sinistra, 2018/19, che è durata lo spazio della corsa alle ultime elezioni europee, senza nemmeno portare nessuno a Bruxelles/Strasburgo; e il Progetto Brancaccio, 2017, a firma Montanari&Falcone, auspicata montagna che partorì invece topolini l'un contro l'altro armati (come Potere al Popolo e manco mi ricordo più gli altri); e la Coalizione Sociale (o Union) di Landini, del 2015, bel laboratorio quasi mai uscito, però, dalle stanze in cui fu elaborato; e la Via Maestra, del 2013, primo animatore Rodotà, che oltre il grande corteo d'esordio non riuscì a muoversi (salvo gemmare da una sua costola L'Altra Europa, per il voto continentale del 2014, soggetto anche quello di scarso e breve impatto); e Cambiare si può, 2012, con Ingroia, De Magistris e altri, che è quasi subito abortito nella Rivoluzione Civile (poi Azione Civile) del primo, Dem-A del secondo, e più nessun orizzonte nazionale; e il Popolo Viola, 2009/10, sostanzialmente un'unica grande manifestazione anti-berlusconiana che anziché trampolino di lancio fece da zavorra tipica del grande avvenire dietro le spalle (dell'esperienza fu fatto tesoro dai volponi che hanno fondato il Movimento 5 Stelle, pensate un po'!); e per finire con un salto ancora più indietro, 2002/3, alla prima uscita politica della società civile cosiddetta contro il malaffare al governo, i celeberrimi Girotondi. Ecco perché. Allora, non fosse altro che per il fatto che io personalmente c'ero (in tutti questi fallimenti, se devo essere brutalmente onesto) e tanto più coinvolto nelle istanze strategiche quanto più fallimentari poi si rivelarono quei tentativi, ebbene stavolta non dirò e non farò un bel niente, oltre sperare! Sperare che magari a partire dal bell'appello dell'ANPI (di cui ho già scritto qui il 16.1 "Un appello sorprendente") che ha raccolto molte adesioni importanti intorno al titolo Uniamoci per salvare l'Italia, qualcosa succeda nel senso che ho indicato ieri e oggi in questo blog. LA PARTE GIUSTA, mi viene ora in mente, potrebbe chiamarsi quel soggetto sognato (sognare, ormai, è il solo verbo che mi sembra appropriato). Il programma elettorale? Il solito (anche quello): la Costituzione Italiana, specie nelle sue punte più avanzate socialmente e economicamente. Le figure di spicco? No, rinuncio perfino a ipotizzarle (porta di una sfiga! ...soprattutto se sono io a proporle, e a mettermi in mezzo alle fasi dell'architettura preliminare!). Tutto qui. Come si dice: non succede, ma se succede... E se succede, io ci sarò. Invisibile e felice. Dunque la sopravvivenza del governo Conte-bis e forse la stessa possibilità di un Conte-ter, extrema ratio per scongiurare il voto anticipato, sono alla mercé di una di queste tre ipotesi:
- allargare ancora il tuttora esiguo apporto dei centristi liberali, il che vuol dire che quando si tratterà di rendere nel dettaglio il benedetto piano di spesa per il recovery plan la quarta gamba, liberale appunto, farà senz'altro valere tutta l'idiosincrasia nei confronti dell'intervento pubblico in economia a tutto vantaggio della "mano invisibile" del mercato (che infiniti addusse lutti agli Achei, ma tanto quelli non lo ammetteranno mai!); - accettare l'abbraccio dei più moderati (!) nel centrodestra, che però più che a un abbraccio somiglierà a una stretta presa al collo dell'attività inquirente e giudicante nazionale, stante che hanno già detto, i "berluboys&girls" i quali si tingono e si botoxano ma mai perdono i vizi inveterati (con la sponda perfino in qualche notabile del PD), di chiedere in cambio qualcosina (!!) su prescrizioni processuali e separazioni di carriere; - riammettere ecumenicamente la squadra di Renzi e Renzi pure in proprio, che in tal caso l'avrà avuta vinta su tutta la linea, e non oso immaginare cosa farà pagare al prosieguo della vita del governo e del Parlamento, in ultima analisi del Paese e di noi tutti, conoscendo benissimo i tratti caratteriali predatori di Renzi come persona e gli scheletri nell'armadio di tutta la sua cricca, sui fronti più disparati dell'interesse privato e occulto. Dato il contesto, compagni e amici, e pur sapendo io e voi che tutti i sondaggi danno Lega e Fratelli d'Italia capaci oggi di far man bassa di voti, davvero la cosa peggiore che può capitare all'Italia è tornare alle urne domani? Prima di rispondere fate caso, prego, alle due notazioni temporali usate, e considerate l'ipotesi (ottimistica della volontà, molto ottimistica lo so) che tra l'oggi e il domani potrebbe esser fatto un lavoro politico grande e serio (di natura radicale e popolare insieme, come diciamo sempre) per arrivare alle elezioni in modo non così scontato. E anche io ci penso, prima di rispondere. “Mio fratello Bruno e io siamo nati a Roma nel quartiere Prati e precisamente in via Cortellazzo, ora Bu Meliana, traversa della grande via della Giuliana; a ridosso delle Mura Vaticane (io, per dire, sono stato battezzato in San Pietro).
Nel 1939 ci siamo trasferiti in via Cunfida (altra traversa dell’asse stradale) in un edificio dove già abitavano: i nonni materni, Alberico e Pina, con la sorella del nonno – zia Aurelia –, e la famiglia della sorella di mia madre, zia Iside, col marito Giovanni e tre figli, l’ultimo dei quali aveva la mia età; è stato mio compagno di giochi e stavamo in classe insieme alle elementari; purtroppo una grave malattia, non curata bene, se lo portò via a dodici anni – povero Tettè. La nostra casa contava quattro stanze, una stanzetta (dove alternatamente dormivamo, o Bruno o io), bagno, cucina e un lungo corridoio, sede preferita dei nostri giochi a palletta e figurine. Oltre a mio padre Michele e mia madre Licia, la famiglia comprendeva l’altra mia nonna, Lucia, e otto figli, me compreso – gli ultimi due nati proprio in questa casa. Ai primi sette erano stati dati in casa, come soprannomi, i nomi dei nani di Biancaneve (il cartone animato di Walt Disney arrivò in Italia nel ’38) in base a vere o presunte caratteristiche psico-fisiche. Il primogenito Werther, laureatosi a 21 anni (!), ovviamente era Dotto; Adriana, sempre polemica, Brontolo; Liliana, tendente a ingrassare, nonostante tentativi di diete artigianali (beveva aceto!), Gongolo; Renata, calma, riflessiva e paziente, Pisolo; Bruno, esuberante e soggetto a fare almeno undici (!) starnuti consecutivi, Eolo; Vinicio – io – piuttosto timido (sovente arrossivo, se osservato a lungo), Mammolo; Fulvio, il piccolino, Cucciolo. Claudio, nato solo nel 1941, non ha potuto avere alcun appellativo come questi: non ci sono altri nani, nella favola. In casa andavano e venivano a piacimento sette gatti, e c’era una scimmietta (ma ora mi rendo conto di averla vista solo in fotografia). Allo scoppio della guerra oltre alla scimmietta sparirono sei gatti (i maligni dicevano che avevano fatto la fortuna degli affamati). Ne rimase solo uno, Nerino, che noi fratelli e sorelle ci litigavamo per aver vicino. Quanto tempo è passato, e quanta nostalgia ricordando quella casa e i suoi magnifici abitanti! Fu pure il nido, per poco tempo subito dopo il matrimonio, del giovane amore tra me e la mia sposa Enrica. Anche per questo mi è così tanto cara.” - …Papà, perché ti chiami Vinicio? - Non ti piace? - Sì, tanto! …Però non conosco nessun altro che ci si chiama. - Vinicio è il personaggio di un libro, una storia dell’Antica Roma. Ci hanno fatto anche un film, una volta ce lo vediamo. Il libro, e così il film, si chiama “Quo vadis?”; e Vinicio è l’eroe della storia, forte e valoroso, e pure bello. Forse mio padre e mia madre mi immaginavano così, prima che nascessi, e allora mi hanno dato il suo nome. - Ma ai nonni il libro gli piaceva proprio, allora! - A nonna Licia, specialmente! Perché, pensa: anche il suo, di nome, viene da quella stessa storia, scritta da un romanziere polacco, che uscì poco prima che lei nascesse! E’ la protagonista. Suo padre, mio nonno Alberico, che sapeva tante lingue, la lesse addirittura nella lingua originale, e scelse quel nome per la figlia che doveva arrivare …Nell’anno? Te lo ricordi? - Nel 1900! - Bravo: nel ‘900 preciso! - E comunque nonna Licia e nonno Michele ci hanno indovinato: quel Vinicio polacco antico romano è come te! - Grazie, Paiucco! - …E, papà: che vuol dire “cuovàdis”? - Vuol dire “dove vai?”. La frase intera sarebbe “Domine, quo vadis?”: “Signore, dove vai?” - Signore come Gesù? - Sì. Il racconto è di san Pietro, che incontra Gesù alle porte di Roma e gli chiede “dove vai?”, e Gesù gli dice “io vengo a Roma, visto che tu ne stai scappando”, e mentre glielo dice lascia un’impronta di fuoco su una pietra. Quel sasso starebbe ancora lì, pare, in una chiesetta sull’Appia Antica... - Ci andiamo un giorno? - Sì, certo: è una strada bellissima! - Papà? …Perché scappava san Pietro? - Questa è più lunga. Allora… Quando gli chiedevi una cosa, te la spiegava per filo e per segno. Bisognava mettersi comodi. Un ragionamento o si fa per bene o meglio non farlo proprio. Era autorevole, Vinicio. Era serio, ma con un’ironia irresistibile. Era timido, come ha scritto lui stesso nel suo raccontino “I sette nani”, però sfacciato – proprio come i timidi naturali. Era giusto, ma mite. Soprattutto, un uomo buono. Dolce, gentile, sollecito. Come un ragazzo, un ragazzo bravo. Era mite, e buono. Sacrosanto! …Però aveva i suoi cinque minuti; e come spesso capita ai tranquilloni, erano tellurici. Una volta a pranzo, che discuteva con mamma, di nulla, stavamo in cucina, casa di via Angelo Emo, ed era con noi Massimiliano, il mio amichetto del cuore, uno di famiglia. Avrò declamato io qualcosa di storto, non lo so, di iconoclasta – come suole l’adolescente, specie al cospetto del compare –, e mamma avrà alzato gli occhi al cielo dicendo “colpa nostra, che li abbiamo educati male: siamo tutti peccatori!” (che poi mia madre è l’antitesi della bigotta, ma faceva un po’ questa scenetta). Al che, il colpo di scena vero; mio padre: “Io non sono un peccatore! [alzando la voce] …Io li ho educati bene! [gridando proprio]” E afferra la prima cosa che gli sta a portata senza doversi alzare dalla sedia: lo scolapasta (vuoto) sul lavello, e lo scaglia a terra! Ma è di quel moplem che l’Homo Sapiens lascia in eredità agli eòni, e quindi non si rompe: così si perde tutto l’effetto… Ma lui non si perde d’animo: si alza, e con un balzo agile (inusitatissimo) salta a pie’ pari sul manufatto incolpevole, testuggine di plastica eterna, e ci rimbalza sopra due o tre volte finché non c’è che un fiore di petali arancioni spiaccicato sulle piastrelle bianche e grigie. Poi si risiede, inforchetta lo spaghetto e soffia “‘Mbè!”. Mamma trasecola e ci guarda: “Sto con un pazzo!”. I tre imberbi (Giorgio, mio fratello piccolo, compreso) battono le mani estasiati; alle finestre si annuncia già l’estate. Un’estate, magari, di quelle in cui andavamo in vacanza tra i monti sloveni, carovana romana in un paesino non ancora famoso per le gare di sci ma già celebre per le nostre sfide infinite a minigolf! Mamma che anno dopo anno continua a impugnare la mazza come una scopa, papà che l’avvolge da dietro per insegnarle la posizione corretta. E nella luce del pomeriggio erano ai miei occhi davvero incantati: un girasole doppio, con le corolle vicine. Ricordo una volta che Giorgio, accanto a loro, con un berretto a visiera rosso Ferrari, si spancia dalle risate ai tentativi orgogliosi di mamma di fare a meno della provetta tutela del suo uomo; e in effetti lei si libera, e ramazza la pallina a modo suo: con un solo colpo le fa superare un ostacolo a dossi e cunetta, la indirizza esattamente nel circuito di ferro con tanto di giro della morte, e la imbuca perfetta, a dovere! Gioco, partita, incontro. Applaudiamo basiti. Mio fratello la abbraccia alla vita, tanto forte che gli cade il cappello. Tu e le donne, papà. Ti trovavano speciale, a occhio e croce, e le trovavi speciali anche tu; perché in effetti lo sono – in un senso che non so dire ancora, benché io abbia ormai la barba bianca (e quindi non saprò dirlo più). Forse quella stessa estate, forse un’altra, ma stavolta al ping pong… E’ arrivato il momento del campione dell’albergo in carica, lui, mio padre, che il sorteggio ha messo dinanzi a una bellissima signora russa. Gli spettatori erano, per numero e per attenzione, all’altezza della presenza in campo sia del detentore del titolo sia dell’esotica avversaria. C’è anche mia madre, ovviamente. Che insieme alle zie osserva da un angolo della saletta il fatto sportivo in sé ma pure, e direi con assai maggiore attenzione, quello antropologico, insomma: sessuato. Queste nostre donne non tengono lo sguardo puntato sulla palla come chiunque altro (con le tipiche semi-rotazioni del capo sul collo, da destra a sinistra e viceversa, e gli effetti comici involontari che cògli se ti estranei dal match e osservi l’insieme di quelli che vi assistono); loro no: teste ferme, avvitate, tutte e quattro o cinque quante sono, in direzione (apparente) della figura di papà, ma occhi mobilissimi che si spostano ora sulla silhouette della bella straniera, ora sul dettaglio del suo viso, delle sue espressioni, ora sui gesti di mio padre, e sulla sua faccia in particolare quando dice qualcosa, pur solo il punteggio progressivo. Ma teste immobili, ripeto, per dissimulare l’esame in corso; una commissione-censura schierata: spettacolo nello spettacolo. Ma papà è puro teatro! Gioca seriamente, anche se di là la competitrice è molto meno attrezzata; e ci dà pure di tagli a effetto, soprattutto perché si accorge che donna Marina (è il suo nome), la quale fino ad ora non ha dato confidenza a nessuno degli ospiti in villeggiatura, mostra di divertirsi ogni volta che la palletta che le viene incontro prende dal rimbalzo sul tavolo una direzione inaspettata, quasi impossibile, ed esce dalla portata della sua racchetta nonostante lei si sporga tutta sul campo a destra o a sinistra, e con grazia vada a cercarla nell’aria. E ride generosamente, lei, muovendo i lunghi capelli di seta color del grano sbiancato dal sole, a contrasto col nero implacabile della sua maglia attillata, della sua figura tutta. Non vi dico mamma, e le zie! Tuttavia io – lì a bordo tavolo – non ci vedo nulla di men che naturale, né nel disegno in movimento di quel corpo tranquillo del fatto suo, né nei sorrisi discreti più ancora d’occhi che di labbra che Vinicio serenamente manifesta giocando quella piccola sfida internazionale. Ci dev’essere – anzi, penso – tanta vita, e tanta consapevolezza desta della vita, di sé, dell’amore dato, ricevuto, nutrito e nutriente ogni giorno, ma anche di tutte quelle altre cose che non sono l’amore della vita né della vita i pilastri importanti e però conferiscono ciascuna un pezzetto all’io che si riconosce come una traiettoria più o meno coerente nell’arco del tempo; ci dev’essere questo alle spalle di quell’uomo grande e grosso che mette su adesso un viso da ragazzo, mentre gioca gli ultimi punti di quell’incontro di colpi e di sguardi che non ha uno ieri e non avrà alcun domani, com’è giusto che sia. Ma poi anche mia madre – credo di percepire – al di là del gioco teatrale pure il suo, tutto mediterraneo, della macchietta territoriale e gelosa, quanta vita cosciente ha alle spalle, occhi negli occhi con quell’uomo, momento per momento da un quarto di secolo (supereranno i sessant’anni dal primo bacio!), e dopo insieme ai due figli che hanno messo al mondo e anche grazie a loro sono felici, quanta solidità di vita e d’amore la scalda e inorgoglisce sempre, alla quale la più lucente delle Kim Novak nei paraggi non può, manco involontariamente, far minima ombra! Poi – in quella vacanza che sembra durare tutta un’infanzia dorata, la mia, la nostra – c’è ancora un’azione, un po’ defilata. Prima papà e poi suo fratello Fulvio – il “Cucciolo” nella scala dei primi sette Andreozzi di quella generazione – si allontanano dal tavolone dello spazio comune, ci passano affianco dove stiamo noi seduti in fondo alla scala e salgono al piano di sopra; papà apre la porta della camera dei miei, entra lasciandola socchiusa, zio lo segue, si chiude la porta alle spalle. Sua moglie, zia Giuliana, e mia madre, forse non lo hanno neppur notato: sul tavolone si chiacchiera, si gioca a carte e si scrivono cartoline, che fuori piove. Poco dopo anche mio fratello, che stava allineando dinosauri per terra non lontano da noi, si alza, ci passa nel mezzo, a noi adolescenti a dibattito su chissà cosa, sale le scale; arriva alla porta di sopra, bussa, gli aprono, entra, si richiude la porta. Ma io so cosa succederà lì adesso e per la prossima oretta. Mio padre prenderà dall’armadio una borsa di cuoio marrone, con la chiusura in metallo a scatto, l’aprirà davanti a zio Fulvio e al piccolo Giorgio, e tirerà fuori figurine a decine di ciclisti di ogni tempo e nazione; figurine di quelle degli album ma che non sono mai state attaccate perché hanno un altro destino, o in quantità maggiore ritagli di fotografie di giornale, ritagli accurati a figura intera o dell’atleta in azione, e rinforzati con un cartoncino di stessa forma e dimensione sagomato apposta e incollato dietro alla troppo sottile carta stampata. Le tireranno fuori, probabilmente sul letto, e poi ne selezioneranno un certo numero secondo i criteri della gara che hanno in mente di organizzare; e dopo comincerà il loro gioco. O meglio: continuerà, giacché credo sia iniziato verso la fine degli Anni ‘40, lungo quel corridoio infinito di quella casa in via Cunfida, sicuramente imbeccato da identico gioco dei fratelli più grandi, con un passaggio di mano di figurine e ritagli da ragazzo a bambino, e tra dita che di bambino diventano poi di ragazzo e di uomo, quando il tempo per giocare ancora questi uomini, grandi e padri, se lo vogliono ritagliare come fanciulli, com’è sacrosanto che sia. E un bambino chino a terra con loro ora c’è, a veder correre Coppi e Bobet, De Vlaeminck e Bahamontes, Kubler e Hinault, Bartali, Binda e Mercks e tanti altri, spinti da piccoli colpi alternati degli indici adulti di Fulvio e Vinicio, carponi ma senza peso sul parquet di Slovenia. Li guarda felice, Giorgio, nel quadrato di luce che tutti li bagna ora dalla finestra. Che di piovere ha smesso. Dei fantastici otto tra fratelli e sorelle, una era nata lo stesso giorno di papà, tredici anni prima di lui: Adriana, cortese e romantica, ma anche tosta come una chioccia che ha fatto crescere così bene le mie tre belle cugine. Oggi lui farebbe 87 anni, e dunque oggi è anche un secolo esatto dal primo vagito di zia Adriana! Mio padre si mise a giocar di racconti, come quello in apertura, quando andò in pensione; per ricordare questa sorella “gemella”, nei giorni successivi alla sua morte – 5 aprile 2015, giorno di Pasqua – tirò fuori alcuni pensieri… “Il 23 gennaio siamo nati insieme… con qualche anno di differenza, e per tante volte abbiamo festeggiato con famiglia e parenti l’avvenimento, celiando per gli amici che fossimo gemelli, tu con atteggiamento civettuolo, mentre io sottovoce rimarcavo la differenza di età. Questa circostanza, comunque, ci ha legato particolarmente. E ora mi sembra di aver perso una parte di me. Quando ti sei sposata io ti ho fatto da paggetto insieme a Sandra, lei per tuo marito Guido. Allorquando ti sei trasferita a Genova, per motivi di lavoro di Guido, per tanti anni ho trascorso felicemente le mie ferie scolastiche estive vostro ospite, da solo o con mamma e i fratelli più piccoli. Tu già avevi la primogenita Patrizia, mentre nel capoluogo ligure sono nate Carla e dopo qualche anno Paola. Grazie a voi ho potuto conoscere le bellezze di Genova: Nervi con la sua passeggiata romantica; Sturla con la spiaggia di Boccadasse dove ho fatto, unica volta, il bagno di sera (perdendo un calzino); il centro con il Duomo di San Lorenzo, la casa di Colombo, il Righi e tanto altro. Mi hai presentato ai vicini, o meglio… alle vicine, con le quali ho intrattenuto buoni rapporti; anzi con una ragazza, Lia, ho avuto un dolce amorino. A casa vostra una signora di nome Elsa ti aiutava nelle faccende domestiche e cucinava il pesto alla genovese, da dio! L’anno in cui venne anche Fulvio egli pure ebbe un amorino con una giovane che vi abitava vicino; si vede che l’aria di Genova con noi è stata ruffiana! Qualche anno dopo, mentre eravamo con mamma vostri ospiti, fatto eccezionale venne da Roma la mia fidanzata, Enrica, e so che tu e mamma avete garantito ai genitori della mia fidanzatina la correttezza dei nostri incontri. Riuscimmo comunque a fare, da soli, una bella gita in traghetto a San Fruttuoso e Portofino: che bel giorno ricordo! E dopo, tutta una vita. Purtroppo il caro Guido ci ha lasciati troppo presto… tu ora lo stai raggiungendo. Da vedova ti facesti carico di guidare le vostre figlie, e l’hai fatto più che bene perché sono tre brave ragazze; insieme alle belle figlie loro, e con i mariti affianco, ti hanno assistito durante gli anni della malattia. Questo è il mio ricordo, Adriana; tanto altro potrei aggiungere, però lo tengo per me. Ciao, Brontolo!” E io non so, papà – non saprò mai, nessuno lo saprà, neanche mamma –, cosa tenevi nei pensieri nei momenti di rilassato silenzio, sempre più frequenti nei tuoi ultimi mesi, di contemplazione del tutto del quale ognuno di noi, chi più vicino chi più lontano, insieme ai tuoi giorni recenti e quelli antichi di ottantaquattro anni, in un rondò forse bergmaniano, doveva far parte ai tuoi occhi. Non parlo di un dio, ma molto di più: del mistero dell’arcobaleno dell’esistenza così come deve apparirti quando sei quasi al cospetto, e lucidamente lo sai nell’ordine naturale delle cose, del secondo e ultimo piede della campata, di quell’unica, non più ripetibile, avventura nell’esserci. Non lo so, che si pensa – ed è giusto: non è ancora quel tempo per me. Venire al mondo dalla mamma e da te, è stato bellissimo. Questo penso, ancora e sempre. Ciao, Mammolo! Vinicio Andreozzi 23.I.1934-31.V.2018 La quiete non è sempre pace. La legge non è sempre giustizia. Ma l’alba ritorna prima di quanto crediamo. Non ha ancora 23 anni. A 17 ha pubblicato il suo primo libro di poesie The One for Whom Food Is Not Enough, a 19 ha conseguito il titolo di National Youth Poet Laureate, e come abbiamo visto tutti è stata scelta per leggere alcuni suoi versi all'insediamento di Joe Biden. Il femminismo, il razzismo, l'emarginazione, la diaspora africana, l'emancipazione, la liberazione, sono i temi del suo lavoro. A casa sua l'accesso alla televisione era limitato, e per questo fin da piccola si è dedicata alla lettura e alla scrittura, iniziando a comporre poesie all'età di 8 anni. La TV è cacca, in larga parte, come diciamo sempre! Un essere umano è, stringi stringi, ciò che fa del suo tempo e nel suo tempo (il tempo di cui può disporre liberamente, tolti obblighi e vincoli, certo) e, più in generale, è ciò che ama di quel che il tempo fa di lui/lei stess*. Quella ragazza, adesso e spero per tutta la sua vita, è (e sarà) ciò che ha fatto del suo tempo da quando è nata e ciò che ha amato (e non amato) nell'essere agìta dal tempo. Noi possiamo sempre fare qualcosa del nostro tempo, nella porzione in cui è nostro, e sempre possiamo scegliere di dargli amore o non darglielo (e nel frattempo amare qualcos'altro) anche quando decide lui per noi. È questo che, stringi stringi, ci fa come siamo. |