...è già arrivato, in realtà. Non qui, a Roma, Italia, GMT+1, dove sono solo le ore 13 e qualche minuto del 31 dicembre, ma senz'altro il 2021 è arrivato qualche minuto fa nelle Samoa (già Samoa Occidentali, ora solo Samoa) in pieno Pacifico. Apia ne è la capitale, capitale della parte di quell’arcipelago che fu possedimento tedesco, poi protettorato neozelandese e infine indipendente, nel 1962: prima entità insulare dell’Oceano Pacifico a diventare Stato sovrano (‘sovrano’ in senso stretto, essendo le Samoa una monarchia benché elettiva e parlamentare), e associato al fuso orario GMT+12; per cui lì hanno appena stappato bottiglie, brindato all’anno nuovo, brillato fuochi d’artificio… insomma ciò che faremo noi tra undici ore scarse.
Ma sentite qui: l’altra metà dello stesso arcipelago, le Samoa Americane (quindi territorio USA a tutti gli effetti, colonia più precisamente e come tale certificata dall’ONU, capoluogo Pago Pago, breve momento di gloria nel ’69 per aver ricevuto nelle proprie acque l’ammaraggio dell’Apollo 10), ebbene si trova sì a poche decine di miglia nautiche da Apia, ma a 24 ore di distanza secondo la ripartizione del mappamondo in fusi: in questo preciso istante là è mezzanotte e qualche minuto però della notte tra il 30 e il 31 dicembre 2020, quella che noi in Italia ci siamo lasciati alle spalle stamattina all’alba! Capite? I samoano-americani, proprio poco fa, probabilmente hanno visto da casa loro scrutando l’orizzonte verso ovest i riflessi lontani delle pirotecnìe dei samoani (indipendenti) per il 2021; eppure la notte di quelli è la stessa loro notte, e con un natante veloce questi potrebbero arrivare là prima che gli si freddino le lenticchie (o qualunque cosa mangino nel Pacifico per tradizione di fine anno) e svaporino le bollicine; ma invece dovranno aspettare che sorga il Sole su Pago Pago e dintorni, il Sole però di giovedì 31, e che trascorra il giorno, faccia sera e arrivi mezzanotte anche per loro, per brindare e far festa al Capodanno, neonato venerdì 1° gennaio 2021, ultimi umani del pianeta a poterlo fare a pieno titolo. Ed è così sempre: ad Apia e a Pago Pago gli orologi segnano la stessa ora di qua e di là da un corto braccio di mare, ma Apia per il calendario è sempre un giorno avanti e Pago Pago (GMT-12) sempre uno indietro. Questa e altre bizzarrie della linea del cambiamento di data, che corre più o meno lungo il 180° meridiano (agli antipodi esatti di quello di Greenwich) ed evidentemente taglia in due l’arcipelago samoano, hanno suscitato spesso gli spiriti curiosi. Menziono doverosamente Jules Verne, amico mio di infanzia e adolescenza, che ne discetta in Il giro del Mondo in 80 giorni tramite il suo protagonista Phileas Fogg, e Umberto Eco, mio maestro a vita, che in L’isola del giorno prima fa sì che s’interroghi sul tema il vecchio gesuita padre Caspar. Torniamo a noi, qui e ora. L’anno che sta arrivando potrà essere una di queste tre cose: l’anno della rinascita, l’anno del baratro, l’anno della sopravvivenza. Rinascita sarebbe se l’aver affrontato, volenti o nolenti (anzi, decisamente nolenti) tutti insieme una catastrofe mondiale come non se ne son date negli ultimi 75 anni, un singolo evento cioè di letalità e globalità tali che tre generazioni di fila non avevano mai conosciuto, ci portasse, per uscirne nel migliore dei modi, a ristrutturare l’intero sistema della convivenza umana in modo che si operi concretamente contro calamità ormai cronicizzate quali il riscaldamento globale, la disuguaglianza socioeconomica, il saccheggio delle risorse naturali, la tendenza a risolvere con la guerra i conflitti internazionali o infraregionali, la tentazione di creare fermenti idonei al proliferare di atti terroristici per tacitare così ogni istanza di massa critica rispetto al sistema, il precipizio nella disperazione di uomini e donne a centinaia di milioni che per questo intraprendono migrazioni disperate altrettanto (per di più ostacolate in ogni modo da noi, abitanti della parte di Mondo che ha creato per interesse tutte le suddette condizioni del precipizio medesimo) – ristrutturarlo, ad esser franchi, lasciandoci alle spalle il modello neoliberista e turbocapitalista degli ultimi quattro decenni e implementando soluzioni politiche nuove (ma corroborate da tanta buona analisi teorica e qualche valido esperimento circoscritto qua e là nella Storia recente). Se rileggo il mio blog scopro che l’azzardo di confidare in un’uscita di questo tipo dalla pandemia mi ha sedotto diverse volte nel corso dell’anno, ma certo sempre meno di frequente col passare dei mesi viste le scelte (o meglio, le non-scelte) delle élite globali e locali nel susseguirsi delle fasi emergenziali. Viceversa, sarebbe il 2021 l’anno del baratro se non soltanto si perdesse l’occasione storica, politica, sociale e antropologica di cui sopra, ma per di più la mancata soluzione razionale e duratura di immensi disagi economici, creati dalla pandemia in sé e dalle necessarie misure di contenimento, chiudesse del tutto gli occhi della maggioranza della gente su un esame lucido della realtà e così la spingesse tra le braccia degli orribili pifferai delle (non-)soluzioni (falsamente) facili, rapide, istintive. Sono già pronti, costoro, un po’ dappertutto; alcuni al potere nei rispettivi Paesi o al comando di potenti multinazionali, e se non possono fin d’ora applicare le proprie ricette – il fascismo, il razzismo, la pura violenza all’interno dello Stato o dell’azienda, la guerra cieca verso l’esterno o quella industriale senza alcuna regola né remora – è solo per la presenza ancora massiva di un sentire comune contrario e civile; e altri sono all’opposizione politica o nelle prime retrovie del gotha azionario, ma più tarderà l’offerta al pubblico di convincenti vie d’uscita dalla crisi (non tanto quella sanitaria, dico, ma l’altra, sistemica) più avranno buon gioco nell’additare la stessa democrazia, pur solo formale, e il quadro giuridico vigente come responsabili dell’insicurezza per l’oggi e soprattutto il domani di centinaia di milioni di persone, elettori, contribuenti, produttori, consumatori. Anche questo scenario terribile ho tratteggiato nelle mie pagine dell’anno 2020 e, simmetricamente con quanto già rilevato, i miei moniti (inutili, queruli e anche fastidiosi, lo so) han preso via via più spazio delle mie volenterose speranze. Sarà l’anno della sopravvivenza – tertium datur, quindi, e forse più probabilmente – infine, se il Covid-19 nel 2021 non sarà più (o sarà man mano sempre meno) il ‘pericolo numero uno’ per l’Umanità nell’ambito dei singoli fattori mortiferi riconducibili a un singolo organismo simultaneamente presente su scala planetaria (passatemi la denotazione spiccia di virus come ‘organismo’, su cui c’è invece da ragionare in sede apposita). Vorrà dire, in tal caso, da un canto che la classe di vaccini (già approntata in parte, e da infoltirsi ancora) funziona, e quindi non è stata solo emozionante simbologia quella di quattro giorni fa, allorché domenica 27 dicembre l’Unione Europea a 27 Stati ha celebrato all’unisono il V-Day con le prime vaccinazioni ‘pubbliche’ (e io in persona mi sono lasciato andare alla commozione cortocircuitando la notizia con l’ascolto dell’Inno alla Gioia di Beethoven, inno ufficiale dell’UE – Beethoven di cui due settimane fa abbiamo celebrato il 250° della nascita), e dall’altro che le cure farmacologiche e i presìdi dei sistemi sanitari in tutto il Mondo, sempre meno stressate e congestionati dalla diffusione del contagio, han preso le misure al Sars-Cov-2 anche quando ormai abbia intaccato le cellule dell’umano ospite. Stando così le cose, cioè, Covid-19 uscirà alla lunga dalla cronaca ed entrerà nella letteratura storico-medica come altre epidemie e pandemie precedenti: bellissima notizia! Ma tutto il resto resterà com’era prima: il riscaldamento e i fenomeni estremi, la disuguaglianza feroce, l’eco-depauperamento, le guerre piccole e grandi, i terrorismi, le migrazioni disperate, la tentazione degli autoritarismi o dei fascismi veri e propri, col sovrappiù di un panorama economico desertificato (solo in Italia 400.000 imprese chiuse, e soltanto tra quelle del ‘non-sommerso’, e nel Mondo probabilmente quasi un miliardo di persone che hanno perso lavoro e reddito!) tutto da gestire con gli usurati strumenti mainstream (giacché siamo nello scenario sopravvivenza, non in quello rinascita). Sì: forse avremo una ripresa moderata (e sempre tardiva) dell’intervento pubblico keynesiano, qualche buona tassazione dei patrimoni maggiori (non in Italia però, figurarsi!), una circospetta limitazione allo strapotere dei capitali che giocano su tutti i tavoli borsistici contemporaneamente e poi si rifugiano nei paradisi off-shore… Sì, avremo finalmente la cacciata di Trump e l’insediamento di Biden e Harris, le belle conferme di Sanchez e Iglesias in Spagna, di Marin in Finlandia, di Arce in Bolivia, di Bobi Wine (forse, con tanta necessaria fortuna) pop-sfidante del presidente-padrone della povera Uganda, di Harden in Nuova Zelanda (dalle parti di quella linea fatidica, del 180° meridiano e cambio-data)… Tutto vero e giusto ma purtroppo, proprio per quanto già detto, se lo scenario sopravvivenza è per sua natura transitorio e destinato a stabilizzarsi in una posizione di equilibrio diversa, piuttosto scivolerà nella cunetta buia del (l’ho chiamato) baratro che non sul dosso luminoso risalendo alla palingenesi profonda del sistema-Mondo. E qui nel BelPaese? Ma davvero val la pena di parlarne? Il governo in carica è minato dall’interno, per futili motivi, da un gruppetto che pesa il 3% nei sondaggi ma ha la rendita di posizione delle mosche cocchiere, e dall’esterno, per motivi abietti, da una forza politica razzista e una fascista con (pensate!) una terza forza, questa mafiosa, che le tiene (ancora) lontane dal piede di guerra; inoltre il governo dell’economia, ossia il cartello dei padroni, annovera tra le sue file gente che ha detto espressamente “qui bisogna riprendere col business, e se muore qualcuno pazienza!”; e infine ci sono medici che professano sui social la propria fede no-Vax, tanto che l’Ordine sta valutando (e che aspetta?) di sospenderli o radiarli addirittura, c'è una bella percentuale di operatori delle residenze per anziani (le tristi bare e impotenti che sappiamo) che dichiara che non (!) si vaccinerà, ed è partita una campagna d'odio (“vediamo quando muori!”) contro la prima (infermiera, romana, Spallanzani, in trincea da un anno) che si è fatta la puntura il 27. Che 2021, compaesani, che ci aspetta! Ma, come si dice: ogni giorno la sua pena, e non precipitiamo con le profezie di sventura! Oggi, ancora 31 dicembre 2020, ormai ora di pranzo passata (al fuso nostro e di tutta l’Europa Centrale: CET) …Ecco, questo sì: stasera a mezzanotte niente botti, per carità. Facciamo solo tante luci, radiose e colorate, ma non straziamo di terrore gli animali non umani delle case dei vicini e quelli (provati già da freddo, stenti e solitudine) randagi di città e campagne. Quest’anno glielo dobbiamo per un motivo in più: se esiste una cura per gli umani è sì grazie all’intelligenza e alla tenacia, alla fatica fisica e mentale di migliaia di scienziati e tecnici in tutto il mondo (giustamente remunerati per la loro libera scelta di vita di studio, competenza, professionalità), ma anche (e tanto) grazie alle (mai scelte, e incomprensibili per loro) sofferenze fisiche e mentali, fino al sacrificio (assolutamente non volontario) della morte in gabbia, di milioni di cavie come ratti e macachi (specie totalmente senzienti e di alto sviluppo intellettivo) usate per testare i protocolli sanitari in ogni singola fase. …E va bene, pensiamo alle cose belle! Visto com’è andato quest’anno, forse per la prima volta avrà un’oncia di probabilità il classico augurio che il nuovo possa esser meglio del vecchio! Augurio tanto classico, e altrettanto immotivato, che già Leopardi ebbe gioco facile a sbertucciarlo mirabilmente nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832), non senza prima aver mostrato il vero volto del Fato cosiddetto nello stordente Dialogo della Natura e di un Islandese (1824 – entrambi nell’edizione definitiva delle Operette morali, a mio modesto avviso tuttora fra le cinque cose più belle mai scritte in italiano in prosa). E che Madre (?) Natura sia intrinsecamente sorda e cieca ai nostri desideri e bisogni (come a quelli specifici di ogni altro essere vivente), il 2020 ce l’ha ricordato a dovere. Pensiamo alle cose belle. La luce in fondo al tunnel forse cominciamo a vederla: ci vaccineranno, ci cureranno all’occorrenza, comunque dovremo e sapremo restare attenti fino a nuovo ordine adottando tutte le precauzioni che abbiamo imparato a fare nostre (così come da tempo non ci fa più strano indossare il casco, mettere la cintura, non fumare in luoghi pubblici); e insomma prenderselo da adesso in poi, il virus, tanto da creparci, sarebbe proprio un’infame scalogna: Come un partigiano / Morto prima del maggio del ’45, direbbe forse Pasolini che così scrive nella penultima pagina di Una disperata vitalità, poema del ’64 dalla raccolta Poesia in forma di rosa (sempre a mio modesto, fra le cinque cose più belle mai scritte in italiano in versi). L’anno che sta arrivando / Tra un anno passerà (e questa è tra le cinque cose più belle mai scritte in italiano per la musica), così io mi sto proverbialmente preparando. Un brindisi, sto preparando; che offro a tutti e tutte voi che mi date la gioia di leggere ciò che di così povero, invece, io vado scrivendo sempre. Alla ragione senza spazio Alla bellezza senza tempo Alla giustizia senza nazione Alla dolcezza senza prezzo Alla passione senza rimpianto Alla speranza senza ragione Alla lotta alla gioia al sapere Alla pace all’amore Ma sì cari amici, Buon Anno: è questa la novità. ...musica!
1 Commento
Non ho mai tossito tanto come quest’anno.
Ma non mi sono mai ammalato poco come quest’anno. Dev’essere un fatto di nervi, in entrambi i casi. E più o meno alle stesse cause è ascrivibile il fatto che non ho mai scritto quanto quest’anno. Scritto – intendo – roba che ho ritenuto di fissare in una forma definita e pubblicare (on line e ‘copyleft’, as usual, qui). Da Lezioni apolidi, compendio di filosofemi personali, a Reconstructing Vinicio, ‘dramma giocoso’ in memoria di mio padre, da Genealogia di un ideale, politiche ‘confessiones’, a L’ultimo punto, un romanzetto di formazione candidamente autobiografico, da Se io non fossi io, specie di divertissement storiografico, a L’eterogenesi dei fini e la palingenesi dei mezzi, il classico instant pamphlet; oltre a curare il blog Anni Venti, del quale una cinquantina di pagine scelte (tra cui questa) cadono nella prima cosa che pubblicherò a gennaio, col titolo 2020: L’anno che non c’è stato. Son sempre i nervi. Comandano loro. Non ho mai fatto così poco sport come quest’anno. Praticamente niente calcetto/calciotto, né piscina né palestra né tennis, niente sci proprio. Mai una sauna, che pure è una mano santa per me (nonché il mio pensatoio narrativo preferito). Solo un po’ di bici, ma compatibilmente con le restrizioni note; e quando non si poteva affatto allora un po’ di corsa, però senza esagerare sennò ecco il mal di schiena. Miracolo, a proposito, con tanto poca attività fisica, e di sicuro non troppe attenzioni alla dieta (tòglimi pure il divertimento di far la spesa e cucinare, o veder cucinare mia moglie, di sederci a tavola, mangiar bene e bere giusto!), che io non sia ingrassato a dismisura con le ripercussioni nocivissime sulla colonna! Comunque qualche chilo l’ho preso. E pure al fegato, benissimo non gli ho fatto. Non ho mai risparmiato tanto (denaro) come quest’anno. Pochissimo cinema (il più possibile, cioè poco), dunque anche pochissime cenette a seguire dalle parti della sala; teatro solo a gennaio, e poi basta, e niente classica dal vivo (col dopoteatro o -concerto idem come sopra); niente jazz on stage; niente (o quasi) mostre, o seminari e letture (solo il festival filosofico annuale, preso per i capelli); niente stadio ogni tanto la sera (manco il giorno, in effetti); niente pub per le partite fuori casa. Solo visite alle chiese d’arte per le loro opere, ma quelle son gratis (quando le trovi aperte!). Un passaggio al Bioparco, giusto per sostenerne un po’ le spese e far divertire gli ospiti (che gli animali in cattività, se non si svagano con gli umani in visita, si rompono: davvero!). Pochissime gitarelle fuori porta per le festività civili, religiose, ponti annessi e ricorrenze familiari. Niente viaggi (eccetto un raid romantico a Venezia, deserta e ancor più magica), zero voli soprattutto. La vacanza agostana: fatta sì, una cosa tenera, sana e rilassante; ma breve, circospetta e a due ore di macchina da casa (…rispetto a Manhattan, già programmata per un anniversario speciale!). Insomma, tutto un toccasana per le tasche. Però una catastrofe per il nutrimento della mente e dello spirito cui sono (immeritatamente) abituato. Non mi son mai goduto così poco gli amici, coi quali essenzialmente condivido alcuni degli appuntamenti di cui ai due capoversi precedenti, e venuti meno quelli… Ma poi per tantissimo tempo non ci si è potuti neppure incontrare anche solo per quattro chiacchiere: nei locali o all’aperto, tabù secondo le decretazioni susseguitesi, e nemmeno nelle case private dove se non ti segue l’occhio della legge c’è pur sempre quello della coscienza. Abbiamo rinunciato alla Braciolata Santa, barbecue iconoclasta del sabato pre-pasquale, tradizione ultradecennale e iperalcolica per una moltitudine di amici, con famiglie al seguito se presentabili (e vegetariani, come me, e vegani e celiaci e altro-allergici eventuali). E rinuncerò per forza di coprifuoco alla capatina del dopo mezzanotte di Natale al 'tempietto' (che poi è il piccolo pronao colonnato semicircolare di Santa Maria della Pace), dove da più di trent'anni mi affaccio per fumarmi una sigaretta (l'unica nei dodici mesi ormai da tempo) e se c'è qualche vecchio compare per scambiarmici un saluto silenzioso. Non sto neanche sui social, capirai! Whatsapp sì, ha aiutato; specie tre o quattro chat tematiche (piene di off-topic, com’è giusto che sia) per animare i legami e lenire le depressioni. E comunque qualche incrocio di straforo, pieno di precauzioni e umanità, si è riusciti a regalarcelo. Mirabili gli incontri al parco con Lou, nipotina di zia e zio di manco due anni e mille parole in due lingue! Quest’anno, per la prima volta, non ho seguito (manco in TV, dico) la Parigi-Roubaix! Gli Europei di calcio!! Le Olimpiadi!!! Perché non si è corsa, perché non li hanno giocati, perché non si sono celebrate. Quest'anno niente corteo del 25 Aprile di Liberazione, che per noi compagni è il Natale degli abbracci e dei canti a pugni chiusi! E non dico altro. Ma non mi sono mai goduto tanto la casetta! I suoi libri, la sua musica, la sua cineteca, le piante sui balconi. E goduto soprattutto chi vi abita con me: un’umana e tre felini! Loro tre, in particolare, felicissimi di avere quasi sempre a portata di baffi i loro roommate, altrettanti gattoni ma lunghi, alti, vestiti e goffi (così ci vedono secondo me), che però soddisfano in tempo reale ogni loro tipo di esigenza: cibi, anche differenziati, acqua sempre fresca, sabbietta ripulita subito, uscire in terrazzo a piacere, accendere e spegnere le luci, alzare o abbassare la temperatura, giocare a qualunque cosa, carezze e grattini, semplice compagnia… Detta così sembra che chiedano molto, e invece sono l’incarnazione del verso stracitato di Odysseas Elytis: d’un niente è fatto il paradiso. Assistere ogni giorno, ininterrottamente, a tanta fusolante soddisfazione per contro a un così leggero impegno personale, è stata quest’anno una delle maggiori coccole dell’anima. I nervi ne hanno beneficiato parecchio. Senza, chissà. Son trascorse settimane in cui le uniche persone con cui abbiamo parlato vis-à-vis (cioè mask-to-mask), io e Valentina, erano la signora che viene a casa a lavorare per tenerla bella e pulita e i signori ai banchi e le signore alle casse del supermercato qui sotto. In più, io, con mia madre le due o tre volte a settimana che scudato di autocertificazione passavo a verificarne le necessità, alternandomi con mio fratello. E pure questo è un unicum che fa di quest'anno ciò che è stato. Non ho mai fatto tanto poco politica (sul campo, e di incontri) come quest’anno. Ma certo non sarà per la mia assenza da manifestazioni (tranne Stati Popolari: c’ero, a piazza san Giovanni, cosa bella e giusta, ma al presente ancora inutile) e da assemblee o riunioni, che la politica italiana ha fatto qualche altro lungo passo verso l’auto-delegittimazione totale e irrimediabile: sono presuntuoso sì, ma non fino a tal punto! Eppoi no, un mio contributo l’ho comunque offerto. Quale? Ma questo blog! Trenta volenterosi al giorno, in tutta Italia, hanno letto quanto di imperdibile ho avuto da dire su fatti, atti e misfatti di pubblico dominio. E allora, cosa si vuole di più? Non mi sono mai sentito come quest’anno altrettanto scisso tra la consapevolezza di una buona sorte individuale e la percezione (più la premonizione per l’avvenire, anche peggiore) del destino triste della collettività (della quale faccio parte anche io, ad ogni modo, e fa parte chi mi è caro). Giacché sono stato (finora) risparmiato dal contagio, e così chi amo, e anche per chi l’ha subito tra chi conosco è stato senza conseguenze di rilievo (tranne forse due eccezioni); non sono tra quanti hanno perso reddito dalle conseguenze economiche della pandemia: dipendente pubblico, in ampio e proficuo smartworking; non ho patito, causa lockdown duri o soffici, zone rosse, arancioni, gialle, verdi, azzurre, indaco o violette, né la forzata lontananza dall’amore (ce l’ho a casa) né la forzata convivenza con l’ex-amore (non è ex, ancora); e non abbiamo figli, quindi nemmeno l’elaborazione delle strategie inedite della didattica a distanza o la gestione dell’insofferenza naturale dei ragazzi alle costrizioni, ci son toccate. Ho una madre anziana e vive sola, questo sì, però è in buona salute, tonica di spirito, indipendente di mezzi e movimento, la vediamo più possibile, mio fratello e io, gode di una bella rete di amicizie parentali e condominiali, è una grande telefonista, e sa usare Skype e Internet! Addirittura abbiamo azzardato una mini-vacanzetta al mare io e lei, inedita, dolce e divertente, sempre non lontano. Quindi al netto della penuria di abbracci che ci siamo responsabilmente imposti tutti, lamentarsi di come ci stanno andando le cose sarebbe assai ingiusto verso le innumerevoli famiglie in angoscia per i propri vecchi che invece son stati infettati, e soprattutto le tantissime che piangono quelli che non ce l’hanno fatta. Tuttavia il quadro generale va malissimo, con tendenza al peggioramento. Per le persone, le famiglie, gli operatori economici, le classi non privilegiate, le infrastrutture sociali, le istituzioni stesse; soprattutto per i poveri, per i soli, per gli indifesi – anche tra gli animali non umani –, per i disperati già di loro. Ma se mi avete letto lo sapete già, non ci torno su ora. Solo: che nervi, che tristezza, che preoccupazione. Non ho mai dato così poco una mano, fisica, di prossimità, a chi ne ha bisogno. Non si è potuto farlo – da semplici ausiliari occasionali, come siamo – per i noti e fondati motivi. Abbiamo provato a ovviare in altro modo. Però non è uguale. E ho avuto paura. Ogni giorno. Di poter prendere il Covid-19, di poter trasmetterlo a chi mi è caro, di ammalarmi ed essere così indisponibile a chi conta su me, essere fonte di preoccupazione indicibile in tal caso malaugurato. Ho avuto paura per me e per chi conta per me, nonostante tutte le precauzioni, poiché per un sano (credo) principio teoretico di reciprocità ritengo che anche la stragrande maggioranza di chi si è contagiato e ammalato potesse in cuor proprio dire di aver mantenuto alta l’attenzione, ma ciononostante… Tuttavia non ho vissuto di quella paura, essa non mi ha monopolizzato (tossetta nervosa a parte). Non si è frapposta tra me e i miei cari, i miei interessi, i miei studi, i miei pensieri, le mie creazioni (che parolona! …ah, quest’anno ho prodotto anche il mio secondo album di musica elettronica, Tirages, qui). Non ha, insomma, la paura, intossicato l’aria che respiravo io e che (credo, spero!) ha respirato chi mi vive accanto. Penso, ora che l’anno è trascorso, di poterlo affermare con sincerità. E anche un po’ di soddisfazione; perché l’anno che sta finendo è stato, per tutto quanto detto, l’anno più strano della mia vita finora, specie riguardo al tema del tempo: ci ha posti dinanzi a noi stessi costringendoci a osservarci attraverso lenti deformate di orologio e di calendario. Ed è proprio cosa scegli (quando puoi, meglio ancora quando lo devi) di fare nel tempo, e del tuo tempo, che più di tutto dice chi sei per davvero. Quella che comincia tra poche ore diurne sarà la notte più lunga del 2020 (nel nostro emisfero); da domani, superato il solstizio d’inverno, la luce del giorno ricomincerà a guadagnare un poco alla volta sul buio. Succede sempre; ma se mai c’è stato un momento in cui serve luce agli uomini e alle donne, e far luce e calore nel profondo dei loro nervi, questo è quel momento. Per cui: grazie Terra, grazie Sole e grazie leggi sublimi della gravitazione universale! Ma oggi, nel tardo pomeriggio, a sud-ovest del nostro cielo ci sarà anche un fenomeno raro, roba da una volta ogni otto secoli! Giove e Saturno sembreranno affiancati, con un effetto di luce forte e vasta quanto una falce di Luna. E dunque ci affacceremo alla finestra, usciremo in balcone, più o meno all’ora in cui cantavamo e applaudivamo in primavera per darci tutti un po’ di coraggio. Terremo gli occhi ben aperti e naso all’insù, apriremo mani per stringere altre mani se ne abbiamo vicine, e apriremo il cuore comunque in trasmissione con gli altri cuori del nostro intatto amore. Che lo spettacolo sta per cominciare! Facciamo una piccola passeggiata insieme, in un posto che si chiama duecentocinquanta anni fa.
È il 20 marzo 1770 e ci troviamo a Lauffen am Neckar, un paesino fluviale di qualche migliaio di abitanti nell’antico ducato del Württemberg, al centro d’Europa, a metà strada fra Praga e Parigi, equidistante dal Mediterraneo e dal Mare del Nord. Oggi qui sta nascendo Friedrich Holderlin. Diventerà uno dei più grandi poeti in lingua tedesca, e in assoluto; insieme a Schiller, che ora ha un po’ più di dieci anni ed è nato qui vicino, sempre lungo il fiume, in Marbach, a Goethe, nato quasi ventun anni fa nella libera città imperiale di Francoforte sul Meno, anche se proprio da poco si è trasferito a Strasburgo, che nel suo continuo oscillare tra appartenenza tedesca e francese in questa fase storica è terra di Francia, e ad Heine, che verrà alla luce solo tra ventisette anni, a Dusseldorf, Vestfalia. Lasciamo ora i poeti, e spostiamoci di 40 chilometri a sud, a Stoccarda, che dei Duchi del Württemberg è città e residenza. Arriviamo il 27 agosto, quando vi sta nascendo Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Sarà uno dei più grandi filosofi di sempre, e senz’altro fulcro e faro dell’idealismo moderno iniziato da Fichte, che ora ha otto anni e li sta trascorrendo nella sua Rammenau, nel Ducato Elettore di Sassonia, e ripreso da Schelling che però deve ancora nascere, a Leonberg, a pochi chilometri da qui, non prima di cinque anni da adesso. Come devono venire al mondo due epigoni, tra gli altri, di Hegel, contrapposti: Schopenhauer, che nasce tra diciotto anni a Danzica, libera città contesa tra Prussia e Polonia (non lontana da Konigsberg, Prussia, dove nel 1724 era nato l’immenso Kant), e Feuerbach, di Landshut, Baviera, classe 1804 (l’anno in cui, invece, Kant ci lascia, il 12 febbraio). Ma dopo i filosofi, da Stoccarda ci spostiamo a ovest di 80 chilometri; qui incontriamo un fiume ancora, il Reno maestoso. Immettendoci nella sua corrente naturale da sud, Alpi svizzere, verso settentrione, tocchiamo Spira della Dieta del 1526, Worms del Concordato del 1122, Magonza di Gutenberg (la sua Bibbia a 42 linee è del 1455), la rupe di Lorelei cantata da Heine e messa in musica da Wagner (che citeremo), e Coblenza della confluenza (da cui il nome) con la Mosella che là si unisce al Reno provenendo dai Vosgi francesi e passando per Treviri, dove tra meno di mezzo secolo (il 5 maggio 1818) verrà alla luce Karl Marx: l’ultimo degli hegeliani, il primo dei rivoluzionari. La nostra meta è Bonn, capitale del Principato vescovile di Colonia. Vi giungiamo il 16 dicembre dello stesso 1770, duecentocinquanta anni fa esatti proprio oggi. Sta nascendo una specie di divinità. Nella quale si condenserà il succo della musica pensata, scritta e suonata in tutte quelle terre prima d’allora, da Pachelbel di Norimberga, Telemann di Magdeburgo, Haendel di Halle, ognuno dei Bach di Eisenach e di Lipsia, e Gluck di Erasbach, e che fornirà l’architettura portante della musica pensata, scritta e suonata poi, da Schumann di Zwickau, Mendelssohn di Amburgo, Wagner anche lui di Lipsia, Brahms anche lui di Amburgo, Strauss di Monaco e oltre – solo per restare tra i tedeschi. E’ Ludwig van Beethoven. Che viene al mondo al n°20 di Bonngasse, in una casa che ha il nome di Im Mohren (“mohren” sta per “carote”), da Johann, tenore alla corte del Principe Elettore di Colonia, e Maria Magdalena nata Keverich (di origini tra Treviri e Coblenza, e lontane radici balcaniche). Ci dona un Opus di 138 numeri in catalogo, fra cui cinque concerti per pianoforte e orchestra, sedici quartetti d’archi, un concerto per violino e orchestra, una messa solenne, un’opera lirica completa, trentadue sonate per pianoforte, nove sinfonie. E in ogni forma musicale si sia cimentato, portando a compimento il Classicismo (inaugurato da Haydn e sublimato da Mozart) e inaugurando il Romanticismo (di cui Schubert e Chopin, oltre ai già citati, saranno incarnazione), ha lasciato un riferimento di eccellenza tale che da allora, oggi e probabilmente per sempre, chiunque associa il concetto stesso di grande musica – cioè una delle massime realizzazioni dell’umano sulla Terra – al nome di Beethoven (come anche può dirsi soltanto di Johann Sebastian Bach e Wolfgang Amedeus Mozart). E se Mozart, di cui sempre in dicembre, il 5, ricorre l’anniversario della morte (nel 1791), possiamo dire che fu il Raffaello della musica, allora Ludwig van Beethoven ne fu il Michelangelo! Ascoltate la sua arte osservando insieme le massime opere di Buonarroti, e ne converrete. A Teplitz, nel 1812, Goethe s’inchinerà al passaggio della imperial famiglia, lui no. Morirà a Vienna, il 26 marzo del 1827. Là è sepolto, al Zentralfriedhof. Musicò An die Freude, un’ode di Schiller del 1785. Tutto il Mondo la conosce, e la canta in cuor suo quando è felice e se ne bea, o è affranto e di conforto bisognevole, nelle note che scaturirono dalla mente di Beethoven tra l’ottobre del 1823 e il febbraio del 1824, lui avvolto ormai nel silenzio della sordità proverbiale. E’ il Quarto Movimento celeberrimo della Nona Sinfonia, Corale, op. 125 in Re minore; è l’Inno alla Gioia, l'inno ufficiale delle genti d'Europa dal Baltico al Mediterraneo, dall'Atlantico al Mare del Nord, al Mar Nero. Esso recita – e possiamo sentire Ludwig commuoversene profondamente, nonostante la sua irsuta misantropia o forse proprio per questo (in ciò così simile all'ultimo Leopardi) – “Tutti Gli Umani Saranno Fratelli”. Nell’olio del 1828 di Friedrich Overbeck, corrente dei Nazareni (lui nato a Lubecca, ma a lungo vissuto e poi morto a Roma), Italia und Germania (Monaco, Neue Pinakothek), due fanciulle ritratte in posa e ambientazione rinascimentali si tengono per mano, i volti accostati, i simboli rispettivi dei due popoli, un’aria di tenera sorellanza, anche se a dirla tutta sembra sia la Germania a offrire una riverenza sincera all’Italia, forse da minore a maggiore (nella Storia, nella cultura, nello spirito o chissà cosa – chiedere a Overbeck).
Saltiamo due secoli. La Germania, con meno contagi di noi rispetto ai suoi abitanti, con molti meno morti anche in assoluto e coi parametri del sistema sanitario migliori dei nostri, va in lockdown vero per quattro settimane da prima di Natale a dopo la Befana. E lì sono gli stessi governatori dei lander che responsabilmente lo pretendono dal governo centrale, non come i nostri presidenti di regione che frignano in prima o interposta persona (tramite i partiti di opposizione) per togliere le residue misure di cautela anti-contagio degli ultimi dpcm! Ma in Germania puoi farlo, il sacrificio durissimo del lockdown, giacché durante e dopo sosterrai la prostrata economia privata con tanti ristori concreti. Perché? Perché i soldi pubblici lì ci sono, esistono tasse razionali e vengono onorate da gente e imprese. E invece in Italia? In Italia invece i governi fanno a gara a toglierle, le tasse, e soprattutto nessuno ha mai impostato una vera lotta all'evasione fiscale, all'elusione, al lavoro nero e al riciclaggio dei profitti illegali! Quindi con che li dai i ristori all'economia in ginocchio? Patrimoniale? Bestemmia. Tassa di successione? Offesa contro i defunti. Stato imprenditore a rilevare il privato fuori mercato? Eresia. Vedete dunque che qualunque mossa logicamente possibile, davvero efficace contro la pandemia, è stoppata all'origine da ciò che gli italiani mostrano di volere da decenni, che il ceto politico sta lì apposta per presidiare e che i media hanno blindato come senso comune. La salute, ora che siamo al dunque, sembra non essere tra le priorità dei nostri compatrioti. I quale forse, atavicamente, son piuttosto speranzosi nella guarigione miracolosa, o furbescamente convinti che se conosci qualcuno ti salvi anche nel marasma, che non disposti a contribuire in concreto alla giustizia sociale che garantirebbe la sanità pubblica di qualità e gli ammortizzatori economici necessari proprio adesso. Sarà un Natale di guerra, almeno questo dovremmo capire prima di sbraitare, perché da guerra sono le perdite che abbiamo subito e stiamo subendo come vittime fisiche, come crollo sistemico e come depressione degli animi. Dice L'ISTAT che nel 2020 l'Italia conterà in tutto 700.000 morti, come mai prima dal 1945 ad oggi! E perciò dovremmo semmai chiedere ai nostri anziani (quelli che non ci sottraiamo al rischio di infettare pur di non perdere certe "libertà" che i divieti non hanno tassativamente ridotto), chiedergli come fu il Natale degli anni dal 1940 al 1944; e leggere dai libri come fu il Natale degli anni dal 1915 al 1917, e poi quelli del biennio successivo quando imperversava un'altra pandemia. Ci darebbe il senso della misura dell'oggi, e magari un pudore ritrovato. Forse. Come il tenue rossore sulle gote di quelle due giovani nel quadro. Ma poi, parlando di guerra, anche dalla guerra ci sono modi diversi di venir fuori a seconda del tipo di popolo che sei. Chi ne esce con un processo a Norimberga, con atti di elaborazione profonda delle colpe e contrizione reale per i crimini commessi, e poi con programmi e pratiche di ricostruzione sociale, materiale e morale, che mettono al centro la persona, il cittadino e il bene comune. E chi, invece, se la butta alle spalle con una bella amnistia, in senso tecnico e in senso figurato, grazie alla quale i fascisti di ieri diventano i burocrati di oggi, i padroni restano gli stessi, le mafie siedono a palazzo e chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato. E il resto è creatività e simpatia. Il paese dei gattopardi ha tante risorse sottili, insomma, ma non gli anticorpi al Covid. Stavolta coi soliti metodi non la si fa franca. Quanta storia è passata da quel dipinto. Ancora. I soldati americani morti in Vietnam furono circa 58.000, e la massa di tutti quei morti ha cambiato la percezione stessa dei concetti di guerra, pace, libertà, democrazia, autodeterminazione e di Umanità, per due o tre generazioni in tutto il mondo. Ora, il numero dei morti di Sars-Cov-2 solo in Italia ha superato quella soglia già il 3 dicembre, oggi è a oltre 65.000 e sfiorerà i 75.000 prima che finisca l'anno. Si può sperare che tutti questi morti almeno cambino la percezione di massa di cose come diritto, dovere, giustizia, privilegio, personale, comune, profitto, valore, sviluppo e progresso, nel nostro Paese? Non so. Magari guardando lontano. Ma al cospetto della danza tragica intorno ai destini del governo Conte II, osservando il risicato orizzonte temporale dei rappresentanti del popolo che su ciò vanno affaticandosi (anziché sulla prova più dura per tutti noi da 75 anni a questa parte) e soprattutto constatando che non per questo spettacolo indegno si siano ancor presi detti rappresentanti per defenestrarli (come fu per esempio a Praga quattro secoli or sono, evento scatenante la Guerra dei Trent'anni da cui nasce l'Europa moderna e la Germania, guarda caso, comincia la rincorsa allo status di nazione), ebbene come ho ripetuto spesso in queste pagine c'è piuttosto da credere che riusciremo a perdere anche questa storica occasione. La pandemia ha rasoiato il credito, materiale e immateriale, di persone, collettività e civiltà intere. Succede. Sono gli accadimenti con cui, bene o male, finiscono ovverosia cominciano le grosse partizioni nei manuali dell'avventura umana sulla Terra. Se un assunto si può ricavare, ormai, credo sia questo.
È solo col lockdown che di Covid non si muore più; però si affama l’economia (questa economia). Invece senza (o con finti) lockdown, di Covid in Italia si muore al ritmo di alcuni terremoti dell’Aquila ogni giorno; tuttavia l’economia (questa) traballa di brutto ma pare non tracolli. Quindi la domanda vera è (dovrebbe essere) non “lockdown sì/no” (giacché se volessimo evitare le file di bare la risposta sarebbe scontata), bensì: “restiamo in questa o passiamo a un’altra economia?” E al momento i decisori politici hanno già, nei fatti e nelle mosse istituzionali, scartato l’ipotesi di un’economia diversa da questa (cioè la transizione verso un’economia ‘superkeynesiana’, pre-socialista, in cui il pubblico rileva strutturalmente il privato prima che questo crolli sotto il proprio peso, e nessuno rischia la fame nemmeno con la contrazione di consumi e di produzione insieme; un’economia comunque costituzionalissima… senza che io ci torni sopra l’ennesima volta). Non solo: mi pare che neanche le grandi organizzazioni di lavoratori e di cittadini (sindacati e partiti, di sinistra ovviamente: chi altrimenti?) la stiano invocando; per motivi che affondano in un non-senso diventato comune in quattro decenni, non scrostabili manco col vetriolo! Quindi, concludendo, dati questi presupposti evidentemente immutabili, sì: la terza ondata del Covid sarà tremenda di altre vittime, e inoltre l’economia sbanderà paurosamente comunque (cesserà in primavera il blocco dei licenziamenti, per esempio); le sinistre politiche e sindacali non avranno alcun merito agli occhi della gente, in ogni modo prostrata, e neppure dei loro sostenitori ‘naturali’ esacerbati altrettanto; e pertanto la maggioranza della cittadinanza, impoverita e falcidiata, si ammasserà ai piedi di voci terribili e pronte a confonderla viepiú. La morale? È che l’Italia post-Covid non solo non sarà la rinascita il cui sogno pur vago ci mantiene in vita da quasi un anno, ma sarà forse la peggiore che abbiamo visto. Il titolo era ironico. |