Il bambino ha un dovere solamente: deve essere amato. E’ un’iperbole, ovviamente; il bambino non ha alcun dovere: è qualcun altro che ha doveri nei suoi confronti. Ma allora, tirando l’iperbole ancora, direi che il bambino è quel dovere: “bambino” è il dover essere amato, è ciò che va amato. Non si dà bambino, non si dà infanzia, se non c’è ontologicamente un’azione di amore incondizionato in quel perimetro d’essere che è il bambino.
Dunque, stando così le cose, allora l’adulto ha un dovere che se non è il solo suo dovere, è il preponderante e prepotentemente: deve amare il bambino. E iperbole per iperbole, diremo che esso è non già un dovere, e neppure il dovere, bensì un piacere; e forse il piacere. Perché se non c’è sofferenza maggiore per un bambino del non essere amato, io dico che non ce n’è una maggiore per l’adulto del non amare; non amare, da grandi, è la morte da vivi. Né serve sottolineare che tutto ciò c’entra ben poco col mettere al mondo bambini, e altrettanto con l’amare i propri bambini. No: si tratta di qualcosa di incalcolabilmente più generale e meno generico, e infatti specifico, indefettibile. Tanto generale che al posto del sostantivo “bambini” se ne può porre qualcun altro: vecchi, infermi, poveri, inermi, animali – e il senso non cambia in nulla. Ma invece al posto di “adulti” non ci può andar nient’altro: amare spetta a noi, a ciascuno indelegabilmente. E ci piacerà, se lo proviamo. |