L’8 novembre 1923, nel Burgerbraukeller di Monaco (che ora non esiste più, per fortuna, altrimenti sarebbe meta di demoniaci e decerebrati pellegrinaggi), Hitler, protetto da una robusta guarnigione di SA, le Sturm Abteilungen (squadre d’assalto, di Rohm, il braccio armato della prima ora e fino al 1934, quando furono liquidate dalle ancor più obbedienti e spietate SS, SchutzStaffel, di Himmler, nella Notte dei Lunghi Coltelli), interrompe un comizio di Gustav von Kahr Governatore della Baviera, conservatore; sparando un colpo di pistola sul soffitto, lo costringe ad abbandonare la sala e convoca i presenti per il giorno successivo, sull’esempio di Mussolini e del suo movimento fascista, alla marcia sulla capitale del Land.
In migliaia seguono l’appello. Ma la rivoluzione, il Putch di Monaco, finisce dopo pochi chilometri, nel centro della città: mobilitata da Kahr, la polizia regionale ha ricevuto l’ordine di fare fuoco, e spara sulla colonna in marcia. I morti sono venti. Hitler riesce a fuggire in un’ambulanza, che in quanto tale non è fatta oggetto di colpi. In seguito sarà arrestato, processato e condannato ad appena pochi mesi di carcere, durante i quali scriverà il suo orrendo ed ebete Mein Kampf e dopo, fuori, riorganizzerà il NationalSozialistenPartei e lo aggancerà ai poteri forti fino ai trionfi elettorali del 1932 e soprattutto del 1933, e il resto è Storia. Ma se, invece, la polizia di Kahr avesse mirato e centrato l’ambulanza e avesse fatto fuori (forse anche con l'incolpevole personale sanitario) quel demente, ignorante e mediocre ma sciamanico, violento, sadico e vigliacco, se ci fossero quindi stati non venti ma ventuno morti (o più) a Monaco quel 9 novembre di novantotto anni fa, molto probabilmente il mondo si sarebbe risparmiato, tra il 1939 e il 1945, qualcosa come 65/70 milioni di morti in guerra o per la guerra, di cui 40/45 milioni di vittime civili, disarmate, tra le quali, certo, anche quelle dell’Olocausto e degli altri stermini su base etnica, ideologica e antropologica. Non posso dirlo con assoluta certezza, ovviamente, specie aderendo a una lettura meno personalistica e più oggettivante della Storia. Forse, intendo, anche morto Hitler nel 1923, sarebbe poi stato un altro demente, ignorante e mediocre ma sciamanico, violento, sadico e vigliacco a precipitare la Germania, l’Europa e il pianeta nell’abisso; o forse non sarebbe stato neppure un austrotedesco bensì qualcuno di altro popolo, comunque afflitto e traviato dalla temperie economica, sociale, politica, culturale e civile che l’Occidente della Grande Depressione e l’intero ecumène capitalista e imperialista stavano vivendo, e avrebbero attraversato a lungo. Forse. Però nel dubbio, e pesando su un piatto della bilancia settanta milioni certi di vite spezzate, e sofferenze e privazioni e distruzioni per altre certe decine e decine di milioni ancora, pur una piccola ipotesi di fermare tutto questo mi fa pronunciare la retrospettiva controfattuale: quell’ambulanza doveva saltare, serviva anche un solo morto in più a Monaco, Hitler doveva crepare quel giorno a trentaquattro anni – e non oggi 30 aprile, soltanto nel 1945, a cinquantasei, e i danni ormai tutti conclamati. Dunque sì: allora, e probabilmente solo allora, si sarebbe dovuto sparare sulla Croce Rossa.
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Le 120.000 vittime civili libiche dell’esercito fascista nel 1930 durante la deportazione delle popolazioni cirenaiche.
Le 600 tonnellate di gas asfissianti (iprite e fosgene) lanciate dall’aviazione fascista sulla popolazione etiopica nel 1935/36, i civili a migliaia passati per le armi dopo l’attentato fallito a Graziani nel ‘37, i 310 monaci cristiani di rito copto trucidati a Debra Libanos col plauso dei cappellani militari. I bombardamenti sulla Croce Rossa in Etiopia, i 17.000 etiopi deportati e sterminati nel campo di Danane in Somalia. I telegrammi a Graziani: “Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio”. L’occupazione della Grecia, dove le autorità locali segnalarono stupri di massa e il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili (il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce Rossa Internazionale: “Vi vantate di essere il Paese più civile d’Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari”; fu internato, torturato, deportato in Italia). Le migliaia di donne prese per fame e così reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani. I 400 villaggi che subirono distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane e tedesche, 200 dai soli italiani. L’eccidio di Mallakasha, la Marzabotto albanese. I 28.000 morti tra i civili in Albania, 12.600 feriti, 43.000 deportati e internati nei campi di concentramento, le 61.000 abitazioni incendiate, gli 850 villaggi rasi al suolo, le 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da frutto distrutti. L’annessione della Slovenia del ‘42 con la costituzione della provincia italiana di Lubiana e le direttive dei generali Robotti e Roatta: “Si ammazza troppo poco… Sgombero totalitario, dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci alla schiena… Distruggere i paesi e sgombrare le popolazioni”. I 150.000 deportati iugoslavi nei campi di sterminio di Arbe, Palmanova, Gonars, Renicci ed altri ancora, con più di 4.000 morti di fame e di stenti. Le vittime iugoslave del campo di concentramento fascista di Zlatin, gli abitanti maschi di Srbernovo spediti nei lager, le donne seviziate dall’esercito fascista e poi gettate nelle foibe. E la Risiera di S. Sabba, lager nazista di Trieste, dove furono sterminati comunisti, ebrei e rom con la complicità diretta dei suoi sgherri; l’unico campo di deportazione dell’Europa meridionale, con esecuzioni o per gassazione attraverso automezzi appositamente attrezzati o con un colpo di mazza alla nuca o per fucilazione (nel complesso le esecuzioni furono almeno 5.000). Le leggi razziali, il rastrellamento del Ghetto di Roma il 16 ottobre del ‘43, le Fosse Ardeatine, via Tasso, l’eccidio della Storta, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, i fratelli Cervi, i Rosselli, Gobetti, Matteotti, oltre 15.000 oppositori mandati al confino, Gramsci... L’Asse Roma-Berlino, il Patto d’Acciaio, il Patto Tripartito, l’entrata in guerra il 10 giugno 1940, oltre 300.000 italiani mandati a morire in divisa, la follia della spedizione contro l’Armata Rossa, oltre 150.000 italiani fatti morire da civili, oltre 50.000 partigiani uccisi. Incalcolabili i torturati, mutilati, feriti, dispersi, disgiunti, le vedove, gli orfani. La guerra di Spagna: italiani in divisa, comandati da ufficiali fascisti, che sparano contro italiani volontari al fianco della libertà repubblicana in quel Paese. Lo squadrismo degli inizi, le Case del Popolo incendiate, i braccianti e gli operai malmenati, le tipografie in fiamme, sindacalisti, socialisti e comunisti uccisi col beneplacito di padroni e règia autorità. La fuga dell’ultim’ora, in maschera da soldatino sul confine con la Svizzera neutrale. L’autarchica miseria camuffata da stolido orgoglio nazionalista per milioni di donne e di uomini lungo tutta una generazione; le privazioni quotidiane, la denutrizione, l’abbandono. Oltre vent’anni di regime sull’Italia e i territori annessi; quasi due di sadica tirannia coi nazisti a nord della Linea Gotica; la distruzione sistematica dei valori democratici, civili e culturali presso un popolo intero dalle tradizioni secolari di Umanesimo. Firmato: Benito Mussolini. Fascista. Dittatore. Criminale. E anche stupido; un ambizioso, vanesio e corrotto che ha fatto danni inconcepibili, che ha sovvertito l’impostazione prettamente liberale dello Stato torcendolo in potere personale, e di banda, di partito, di classe, per un ventennio che si concluderà con l’ecatombe barbara della guerra di aggressione nazifascista contro l’Europa e la Civiltà stessa. Solo un altro lo superò in questo, in quell’epoca. In entrambi, un mix formidabile di stupidità, ignoranza, aggressività e vigliaccheria. A metterla così sembrerebbe un fenomeno di devianza marginale che si tiene a bada da sé, quasi, notevole al limite per la cronaca nera. Eppure, purtroppo, divenne Storia, contagio di massa, istituzione, abito mentale e comportamentale per milioni di persone per un ventennio in Italia, e per altri milioni e milioni per anni o decenni in Germania, in Spagna, in Romania, in Ungheria, solo per restare all’Europa e soltanto alle forme del fascismo statuizzate in quel passaggio del secolo scorso. Divenne razzismo legalizzato, divenne tormento e morte per milioni di innocenti e inermi, divenne la più mortifera guerra della storia dell’Umanità. E’ una cosa grossa, quindi, il fascismo. Da non sottovalutare mai, in qualsiasi forma si determini concretamente magari travestendosi: perché, dal punto di vista oggettivo, è un’arma che il Potere di classe manovra con grande esperienza e profitto, contro le classi dominate facendo sì che esse stesse adottandolo si usino violenza da sé, si neghino la libertà e l’emancipazione mentre il Potere fa affari come vuole. Ed è una cosa mostruosa, perché la facilità con cui quella mescola infernale di stupidità, ignoranza, aggressività e vigliaccheria prende a dominare il cuore e la mente di milioni e milioni di esseri umani, autolesionisti inconsapevoli, necessariamente interpella ogni uomo e ogni donna che fascista non è né sarà mai in quanto ha fede nell’individuo e nelle masse, e nella direzione di marcia dell’umanizzazione. Noi non dimentichiamo – perché la memoria è l’unico vaccino, la cui efficacia peraltro da sola neppure basta contro il morbo. E noi non perdoniamo – perché il perdono non è una categoria politica, né sociale, tanto meno storiografica: non ci riguarda come cives, come demos. Semmai da singoli – ma il sovvertimento tra pubblico e privato, invalso ormai, potrebbe (attenti) non essere che un’altra maschera di quell’involuzione antropologica che al fascismo spiana la strada. Quindi resta pur appesa lì, carcassa, a consumarti al vento, al sole o alla pioggia. Noi si torna a vivere, o almeno ci si prova. Il giardinaggio è l’ultimo alibi degli egoisti patologici; essi infatti annaffiano come se si mettessero due gocce di profumo, potano come se si tagliassero le unghie, pacciamano come se stendessero una crema di bellezza su di sé, piantumano come se indossassero una mise.
Credono di occuparsi di altro da sé stessi ma di fatto fiori, piante, siepi e arbusti non sono che estensioni del loro ego corporale e non. Col vantaggio che a differenza di altri viventi, dotati di voce e gambe, i vegetali non si lamentano mai e neppure possono salutarli e andarsene. Non ti sono bastate le Fosse, non ti è bastata Marzabotto, né sant’Anna di Stazzema, non è bastato il 16 ottobre a Roma, non è bastata Fossoli, né la risiera di san Sabba, non sono bastate tutte le atrocità, tutte le angherie, tutte le vigliaccate, tutte le torture, non sono bastati tutti i tradimenti, tutte le retate, tutti i fratelli Cervi, non sono bastati tutti i soldi sottobanco dei padroni, industriali, agrari, banchieri, né quelli che venivano da fuori chissà dove, non sono bastate le fughe e i travestimenti dell’ultima ora perduta, non è bastata la paura indotta per un ventennio nel popolo semplice, non è bastato coartare l’intelligenza e la stessa speranza di almeno due generazioni di italiani e italiane, non è bastato impedirgli l’amore, non è bastata una dittatura, anzi due, anzi molte, ovunque si è insediata la tua peste nei Paesi d’Europa, non è bastata una guerra mondiale, la carneficina più orrenda di sempre tra quelle innescate da eserciti l’un contro l’altro armati.
Non è bastato tutto questo e non ti è servito a niente, se non a soffrire pure tu come un demonio mentre noi soffrivamo come vittime del tuo inferno finché è durato. Non ti è servito perché tanto siamo riusciti a resisterti, e alla fine ci siamo liberati di te, mostro abortito dalla Storia. Ne siamo usciti, da quell’inferno, dove tu da allora e per sempre rimani come nella tua sola dimora mentale e dell’anima. E che tu sia scientemente convinto oppure soltanto ripeta a pappagallo “viva il duce” o “sieg heil” o “me ne frego” senza capire né sapere, è lo stesso: deliranti o ignoranti, accomunati siete e sarete sempre tra i liquami di scarico degli incubi della gente per bene. Quello il tuo, vostro retaggio deforme. A noi, per quanto difficili, ma umani, reali, il presente e il futuro. E ciò lo dobbiamo, eternamente, alle Sorelle e ai Fratelli Partigiani, alle Madri e ai Padri Costituenti! Grazie, grazie per sempre! Grazie a voi tutti e tutte per la Libertà, per la Repubblica, per la Costituzione! Certo, diceva un Grande, “quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questo! Dietro ogni articolo della nostra Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. Quindi quando vi ho detto che questa è una Carta morta: no, non è una Carta morta. Questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i Partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.” (Piero Calamandrei, 26.I.55 a Milano) Ma la mirabile Carta arriverà solo dopo la prima mezzanotte del 1948; la precederà la Repubblica, al mezzogiorno del 1946. E prima ancora la Liberazione, la mattina del 1945, nel mese di aprile, il più bello e pieno di speranze, il giorno 25 – che da allora è il vero e proprio Natale laico per decine di milioni di cittadine e cittadini d’Italia! E allora auguri, auguri ancora, a noi tutti, compagne e compagni di oggi, amici, fratelli, cittadini tutti! A tutte e tutti, agli uomini e alle donne di buona volontà e retto pensiero, e azioni conseguenti, insieme anche oggi comunque e dovunque: BUON VENTICINQUE APRILE DUEMILAVENTUNO, SETTANTASEIESIMO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE! Ma la Resistenza continua; e la prossima conquista sarà la Democrazia, una degna di questo nome e grazie alle fondamenta già gettate. Eccola, la trincea per queste presenti e le generazioni che verranno. Siamone degni – questo il mio augurio! Fight4Freedom (drumsynth) ...E anche noi che non decidiamo niente, che non stiamo nella control room della Nasa, che ci lasciamo sparare nello spazio e nel tempo da quei dinosauri che di questo tempo e spazio non sembra abbiano alcuna cognizione - anche noi, però, dovremmo inforcare altre lenti per vedere ciò che va visto, alzare altre antenne per captare le onde reali della trasmissione, e avere altre parole, quelle giuste, da dire e da dirci, pensare il pensiero proprio di quest'èra presente.
Invece mi pare di no. Non ancora. E non dico solo nell'agire pubblico, ma anche nel nostro privato quotidiano; e perfino pensando ciascuno tra sé e sé. E' un po' come se nella cabina di ascensore in cui ciascuno di noi si trova ora, e che è stata sganciata dalle corde ed è in caduta libera, credessimo ancora che uno spirito di gravità ci tratterrà le cose nelle tasche, o la saliva in bocca; quando al contrario, come sa ogni buon astronauta, perfino il gesto più naturale, così ogni pensiero, va ricalibrato in base a questa realtà di fatto. Del tutto nuova, e chissà quanto durevole. In soli 20km di passeggiata a pedali, fino a una distanza massima di 7km da casa verso il centro di Roma e a superarlo, l’altro giorno Valentina e io abbiamo incrociato le ex-sale di cinema ritratte nelle foto. Sono diciannove: un ex-cinema ogni chilometro, in media. E altrettanti, diversi, ne avremmo incrociati prendendo un’altra direzione a casaccio; come quelli che menziono nel piccolo dazebao nero, o altri ancora: infatti sono molte decine, ormai, le salMe cinematografiche a Roma. La città da questo punto di vista è un vero e proprio ciNEtero. Ma il Covid non c’entra niente: tutti quei cinema, di prima o seconda visione (come si diceva una volta), o d’essai o rionali o parrocchiali addirittura, hanno cessato di esistere molto prima della pandemia. Nei casi fortunati, pochissimi, diventando teatri o grandi librerie; nella stragrande parte, esercizi commerciali o volumi congressuali; nei casi più tristi sale Bingo, slot-machine o scommesse, o meri parcheggi coperti; nei residuali, e mortiferi, pure e semplici assi di legno inchiodate a porte su strada, col nulla dietro ad ammalorarsi nel tempo che passa. Due o tre di quelli, che il pubblico attento conosce almeno di nome, erano diventati esperimenti di rivitalizzazione culturale ad opera dei centri sociali di zona; finché però la burocrazia delle istituzioni e l’indifferenza della gente, non li ha svuotati e lucchettati un’altra volta, perseguendo gli autori di quel coraggioso tentativo che “cercavan giustizia, incontraron la legge”. E quel che succede a Roma succede anche in ogni grande o piccola città in tutto il Paese: il cinetèro italiano è sterminato, in tutti i sensi. Sotterrati sono non solo gli spazi adibiti a spettacolo, cultura, intrattenimento, non solo le occasioni di coesione sociale che un cinema aperto e vitale rappresenta per la comunità e il territorio, ma anche tanti posti di lavoro. Tantissimi. La colpa di chi è? Del mercato. Ma il mercato chi è? Noi. Siamo noi che abbiamo smesso di andare al cinema da troppi anni. E non perché i film fossero diventati brutti; chi dice così si tradisce come uno che non conosce nulla del cinema mondiale degli ultimi decenni. C’è gente, infatti, che in sala non ha mai visto neppure un film di Dolan, Loach, Joon-ho, Haneke, Kassovitz, Van Sant, von Trier, i Dardenne, Moore, Kore’eda, Panahi, Ceylan, Leigh, Guéguidian, Nolan, Iñarritu, i due Anderson, Jackson, Cameron, Reeves, Ferrara, Cuaròn, Ostlund, Gitai, Kim Ki-duk, Fincher, Jonze, Boyle, Mendes, Wright, Marshall, Luhrmann, Singer, Ford, McQueen, Feig, Baumbach, Sokurov, Mungiu, Kaurismaki, Akin, Lanthimos, Amenàbar, Cantet, Gondry, Sofia Coppola, Bier, Sherfig, Gerwig, Taymor, Nair, Bigelow, Gilliam, Soderbergh, Besson, Tarantino, Yimou, Chahine, Kitano, Almodovar, Kusturica, Spike Lee, Lynch, De Oliveira, Malick, Ioseliani, Kieslowski, Miyazaki e Woody (e sto parlando ormai di dinosauri), né di quelli che son passati dietro la cinepresa (dal vecchio Clint a Sean Penn a Clooney a Branagh ad Affleck, a Valeria Golino e Kim Rossi Stuart), né dei nostri Garrone, Sorrentino, Martone, Soldini, Crialese, Caligari, Vicari, Diritti, Rovere, i Manetti, i D'Innocenzo, Archibugi, le due Comencini, Dante, Rohrwacher, Muccino, Ozpetek, Tornatore, Giordana, Nanni Moretti, Virzì e Salvatores (ma troppi altri sarebbero da aggiungere) eppure, conoscendo poco o nulla di tutto ciò, sentenzia che “non li fanno più, i bei film di una volta”! Autori e interpreti italiani, europei, di ogni altro continente, di tutte le culture, di qualunque stile e tendenza, con ogni messaggio o nessuno se non quello della ricerca sincera del bello, invece ne son nati eccome, anche negli ultimi anni, a un tasso non inferiore a quello di sempre dal 1895 in avanti. Bastava andarli a vedere e sentire, quei protagonisti, per accorgersene: certo, a scapito di un paio d'ore in chat, vuoi mettere! Così abbiamo smesso, e non venite a raccontarmi che è stato per risparmiare: che di soldi ne spendiamo tanti uguale in qualunque altro modo! Dunque i cinema hanno chiuso, a decine e decine solo a Roma, a centinaia, migliaia in tutta Italia. Perché abbiamo preferito restare a casa a vedere la TV, prima, e poi i pc, i tablet, gli smartphone perfino! (Nota personale, consentirete: io e Vale da diciotto anni a questa parte, tranne l’anno-virus ovviamente, stacchiamo un minimo di 60 biglietti lei e 60 biglietti io di sala cinematografica ogni stagione, da settembre ad agosto, e mai di quelle cose chiamate multisala in quelle altre cose chiamate centri commerciali, ma proprio dei pochi veri cinema rimasti; quindi, scrivere qui “è colpa nostra” da parte mia è davvero assai generoso ed ecumenico, ma transeat.) È colpa nostra che abbiamo preferito, come disse luminosamente Paolo Poli parlando della latitanza del pubblico dai teatri, rinunciare a vestirci e uscire, andare in centro o anche solo nel cuore del quartiere, entrare in una sala insieme ad altre cinquanta o cinquecento persone, assistere a uno stesso spettacolo pensato apposta per noi lì, godercelo in silenzio, concentrati o rilassati o le due cose insieme, e alla fine sciamare fuori da quel luogo magico sussurrando commenti, pensieri, sogni a occhi aperti, o anche solo il più bel “dove andiamo a cena?” E con cosa abbiamo barattato tutto questo? Io non so dirvelo, per il motivo di cui sopra (in parentesi), ma penso possa essere: per la scorciatoia della lumaca, ossia chiudersi ognuno nel proprio guscio tiepido. Uno schermo, per quanti pollici possa sfoggiare, piccolo rispetto a quello in sala, o piccolissimo proprio, e un divano o un cuscino rialzato nel letto, e la serie di cui non si parla d'altro in giro o un prodotto televisivo puro qualunque. Ecco, noi due l’altro giorno, una domenica grigia, abbiamo voluto toccarlo con mano, in una passeggiatina in bici, il risultato di tutto ciò. È stata un po’ la nostra visita ai cari estinti, mesta. E pensiamo sia per questo che di tutte le categorie lavorative spezzate dalla pandemia, quella del cinema, sorprendentemente vista la notorietà di tanti suoi esponenti, non raccoglie la spinta popolare a sostegno delle proprie sofferenze, non quanto altre che pure non contano beniamini del pubblico tra le proprie file, come quella della ristorazione per esempio. Che gli italiani, da tanto tempo, hanno scelto; cinema e pizza non piace più: stiamocene a casa con gli amici. E se proprio dobbiamo uscire andiamo direttamente a mangiare, dove i protagonisti siamo noi e le nostre chiacchiere senza la fatica di provare a capire niente di più che una lista di cibi e bevande. |