dramma giocoso di fotografie nuove e no, di musica nota e non ancora, di cinema visto e ricordato e pensieri di due anni, editi e no “La vita di nessun uomo può essere racchiusa in un racconto. Non c’è modo di dare ad ogni anno il suo determinato peso, di includervi ogni evento, ogni persona che ha contribuito a dar forma alla sua vita. Quello che si può fare è essere fedeli allo spirito della cronaca e cercare di trovare una via al cuore dell’uomo.” Richard Attenborough here he died Nell'ordine naturale delle cose. Il Grande Albero ha chinato la chioma verso Occidente. “Una lumaca sul balcone che protende le antenne alla Luna, un campo di papaveri di una bellezza mai vista prima... La verità è che non è mai il momento giusto; che non siamo mai pronti a dire addio. L’amore che dura tutta la vita esiste. Ed è bellissimo.” Valentina …here he was old - Papà, perché ti chiami Vinicio? - Non ti piace? - Sì, tanto! ...Però non conosco nessun altro che ci si chiama. - Vinicio è il personaggio di un libro, una storia dell'Antica Roma. Ci hanno fatto anche un film, una volta ce lo vediamo. Il libro – e il film – si chiama Quo vadis?; e Vinicio è l'eroe della storia, forte e valoroso, e pure bello. Forse mio padre e mia madre mi immaginavano così, prima che nascessi, e allora mi hanno dato il suo nome. - Ma ai nonni il libro gli piaceva proprio, allora! - A nonna Licia, specialmente! Perché, pensa: anche il suo, di nome, viene da quella stessa storia scritta da un romanziere polacco, che uscì poco prima che lei nascesse! E' la protagonista. Ma suo padre, mio nonno, che sapeva tante lingue, lo lesse addirittura nella lingua originale, e scelse quel nome per la figlia che doveva arrivare. Nell'anno? Te lo ricordi? - Nel 1900! - Bravo: nel '900 preciso! - E comunque nonna Licia e nonno Michele ci hanno indovinato: quel Vinicio polacco antico romano è come te! Ci ha insegnato a leggere e scrivere, Vinicio. Non dico tecnicamente: per esempio a leggere io imparai guardando i cartelloni pubblicitari per strada – vero –, e a scrivere, a vergare le letterine con la matita sul foglio, m’insegnò mia madre di santa pazienza (la sua bellissima effe minuscola, che mi pareva una libellula acquattata sulla carta); tanto che in prima elementare un po’ mi annoiavo. No: dico che ci ha insegnato a leggere comprendendo nell'atto di leggere, a me e a mio fratello. E ci ha insegnato a scrivere, ma ad esprimere nello scrivere. E prima ci ha insegnato a parlare, e a dire nell'atto di parlare. E ci ha insegnato a guardare, e a vedere guardando. E a sentire, ma ad ascoltare sentendo. E se torno ancora più indietro, probabilmente ci avrà insegnato perfino a pensare. Ma ad amare nell'atto di pensare, perché un pensiero o è anche un atto d'amore o non è nemmeno un pensiero. Quindi ci ha insegnato a studiare, ci ha insegnato il piacere di studiare, il piacere di imparare. Ma pure ci ha insegnato a giocare, a giocare a ogni gioco; e a correre, a saltare, a nuotare, a pedalare, a cadere e rialzarci. E ci ha insegnato a lavorare, a lavorare bene. Come ha lavorato bene lui, e tanto, nella e per la Res Publica. Di tutti. Ci ha insegnato a essere un certo tipo di cittadino; ad aver cura, delle persone, dei valori, delle cose che meritano se ne abbia cura. Ad aver cura in specie di chi non può averne di sé. Ad avere opinioni, ci ha insegnato, non necessariamente le sue stesse, ma ad averne; e a confrontarle, a metterle in gioco, a cambiarle, a difenderle, a manifestarle; a partecipare, a prendere posizione, a parteggiare, a contribuire come possibile alla crescita collettiva. Ci ha insegnato a tacere quando qualcuno ti parla, e a sforzarci di capire, e solo poi ribattere. Ci ha insegnato la bellezza, la cultura, la diversità, la vastità, la curiosità, l'intelligente rispetto, lo stupore. Le stelle e gli animali. Le montagne, gli alberi, il mare. Le città. Le forme e i numeri. I suoni e i colori. Sempre insieme alla mamma, beninteso. L'attenzione, ci hanno insegnato. La speranza, la memoria. La cosciente presenza. E l'empatia, come si dice; ma operosa. Ci hanno insegnato un certo modo di essere persona; ma senza impartircelo, tantomeno imporcelo. Semplicemente essendo entrambi quel tipo di persona, che noi potevamo veder semplicemente vivere, farcene un'idea e, volendo, aver di che emularlo. Oppure no, liberamente. Non era autoritario, Vinicio, mai. Era autorevole. Era serio, con un'ironia irresistibile. Era timido, e sfacciato come i timidi naturali. Era giusto, ma mite. Soprattutto, un uomo buono. Dolce, gentile, sollecito. Come un ragazzo, un ragazzo bravo. Ci ha insegnato a pretendere, e ad attendere. A chiedere, e a concedere. A lottare, e a mediare. A volere, ci ha insegnato – che mica tutti sanno come si fa. Sapeva sorridere, sapeva ridere, e far ridere. E sapeva piangere – che mica tutti sanno che fa bene. Sapeva voler bene. L'ha imparato ogni giorno della sua vita. …here was chief Ed era bello, nostro padre. Bello come Sean Connery, da grande, o Tyrone Power, da ragazzo. E mamma, bella come Juliette Binoche – o Donna Reed, se ve la ricordate. E voi dovete cercar d'immaginare un fotogramma impossibile (impossibile al cinema, ma che è esistito davvero nella realtà – è qui, in fondo a questo filmino creato due anni fa in sua memoria) – il fotogramma in cui un giovane Sean e una più giovane Juliette sono affacciati sul balcone della nostra casetta di un tempo, sotto un cielo luminoso eppure non luminoso quanto i loro volti; e guardano giocare un ragazzino e un bambino che ridono di nulla e incrociano gli sguardi con mamma e papà. La rappresentazione stessa della felicità. La perfezione. Ballava da dio, papà, con Enrica, suo amore. E cantava, con lei e noi mentre Giorgio suonava il pianoforte come sa fare. (Sentite un suo recente “buona la prima” di Someone to Watch over Me – sentitelo mentre leggete il resto, vedrete che ha senso.)
E giocava da dio, a carte; con i fratelli, i nipoti, gli amici di una vita. E scriveva bene davvero, da ultimo racconti – storie della sua esistenza. Là sì, c’è parecchio! Infanzia, la guerra, scuola, le ragazzate, la leva, mamma, il lavoro, crescere i figli, i viaggi, gli hobby, gli amici, il quartiere, la sua squadra di pallone per i figli del quartiere, i crucci e i sogni, un’Italia che avanza, nel bene e nel male, che cambia, conquiste e perdite, e lui stesso che cambia nel tempo, la sua voce che cambia, che cresce. Diario di ricordi li chiamava, con tanto di sito web per farli girare un po’. Eccolo. Tifava Roma. Amò Berruti, e Benvenuti, Clay Alí, "Sugar" Robinson; la Comaneci, Sara Simeoni e la Sabatini, ma Rod Laver di più; Thoeni (più di Tomba), la piccola Dawn Fraser e la pallavolo sempre; palpitò al gesto di Tommie Smith e John Carlos a Messico '68. E ha adorato Fausto Coppi – ma su bici e pallone ci torno dopo. Macinava la Settimana Enigmistica come pochi. E si divertiva ancora a sfogliare Flash Gordon, Mandrake e Cino e Franco – dei suoi tempi –, e Asterix e I Fantastici 4 dei nostri; consumava Hemingway e Dos Passos tra gli americani, tra gli inglesi William Somerset Maughan (a pronunciarlo ci si avvolgeva, godendo), Simenon tra i continentali (e un po’ tutti i giallisti di qualità); Pratolini, Moravia e Sciascia tra gli altri nostrani, e apprezzava Baricco come affabulatore. Leggeva Paese Sera, col magnifico disco rosso in campo nero come logo; ma il lunedì comprava il Corriere dello Sport e non di rado la Gazzetta, che una volta letta passava in mano a mio fratello che ne ritagliava con cura estrema le fotografie dei ciclisti per certi giochi loro (di Giorgio e di papà – acquattati a terra in corridoio, serissimi e gioiosi, a spingere in avanti figurine a forza di colpetti di indice e di medio). - ...E, papà: che vuol dire cuovàdis? - Vuol dire "dove vai?", la frase intera sarebbe "Domine, quo vadis?": "Signore, dove vai?" - Signore come Gesù? - Sì. Il racconto è di san Pietro, che incontra Gesù alle porte di Roma e gli chiede "dove vai?", e Gesù gli dice "vengo io a Roma, visto che tu stai scappando", e mentre glielo dice lascia un'impronta di fuoco su una pietra. Quel sasso starebbe ancora lì, pare, in una chiesetta sull'Appia Antica... - Ci andiamo un giorno? - Sì, certo: è una strada bellissima! - Papà? ...Perché scappava san Pietro? - Questa è più lunga. Allora... Quando gli chiedevi una cosa, te la spiegava per filo e per segno. Bisognava mettersi comodi. Un ragionamento o si fa per bene o meglio non farlo per niente. Però, va detto: docente esaustivo e meticoloso tra le mura domestiche, ma anche grande umiltà e realismo nei casi in cui il discente fosse lui con noi figli. Come quando, riguardo in specie alle Scienze il cui progresso di scoperte non si arresta mai, ammetteva in totale franchezza: - Ragazzi, quando ho finito io il liceo il Sistema Solare lo teneva insieme la teoria di Kant, Immanuel, e Laplace, debitrice addirittura di Lucrezio nel De Rerum Natura, figuratevi! Gli elementi chimici della Tavola Periodica si fermavano a 98, col Californio, in Nordafrica girellava ancora il Leone Berbero e il DNA poteva forse essere una squadra sovietica di basket! Dopodiché ho fatto Legge. Perciò, sulla scienza attuale o ci vediamo un documentario e impariamo qualcosa tutti insieme oppure ci dite, a me e mamma, quello che sapete voi oggi dalla scuola e noi vi crediamo sulla parola! E chissà se il riconosciuto talento di mio fratello per l'insegnamento, la sua amata professione, non abbia preso qualche abbrivio pure da quei momenti aurorali, fantastici. Da ragazzetto, un mostro a ping pong (che nessuno chiamava ancora tennistavolo) con quella sua fottuta impugnatura "alla cinese" tutta effetti e smash sugli angoli; e poi molto forte anche da uomo, senza allenamento, con l'ancor più bastarda, leggendaria, racchetta Slazenger (acquisto nel corso di un suo altrettanto leggendario viaggio di lavoro a Berlino Ovest nel '70 o giù di lì). Insegnò a giocare prima a me e poi a Giorgio, con quello stile anche noi finché non preferimmo autonomamente l'impugnatura occidentale (più comoda per il rovescio); e d'accordo che con gli anni lui perdeva man mano di mobilità e guadagnava stazza, però dovemmo aspettare tanto tempo, entrambi, per batterlo una prima volta ciascuno! Aneddoto sport-politico. Seconda metà Anni '80, sezione Trionfale del Partito Comunista, io iscritto, papà e mio fratello simpatizzanti, festa annuale del tesseramento, torneo immancabile di ping pong, ci segniamo tutti e tre, anzi quattro col cugino nostro Lucio. Risultato: quattro Andreozzi in semifinale! Poi Giorgio batte Lucio, io batto Vinicio (per un pelo), sfida tra fratelli, vince il piccolo. Alla fine si avvicina un vecchio compagno, da giovane fornaciaro antifascista ruvido, ora osservanza Cossutta, e dice: - Andreozzi [parla a me], non sta mica tanto bene che il torneo se lo acchiappa un non-iscritto al partito. E comunque il Direttivo tifava per Il Cinese, non per voialtri sbarbatelli. Non va, ne riparliamo in Commissione di Garanzia! Sullo sfondo, i ritratti di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer – lui bello di vento, sulla copertina dell'Unità con scritto in rosso ADDIO. Sognava l'umanesimo socialista, nostro padre – quello in controluce nelle parole e nelle opere di Pertini, il Presidente Partigiano, e del dolce e forte, onesto Enrico. Lo auspicava per il Mondo intero. E ci ha insegnato il coraggio. Tutta la vita – e anche morendo quel giovedì di due anni fa, giorno 31: perché Ninetta bella, crepare di maggio ce ne vuol tanto, troppo. …here father Il cinema – ci siamo andati moltissimo, per tutta la mia infanzia ogni sabato pomeriggio come minimo: cartoni, docu-natura (pangolino & C), pellicole semi-serie (del tipo Trinità), serie (ti devo Woody Allen, che mi svelasti con Provaci Ancora Sam), serissime (ti devo Kubrick, 2001, il mio film-della-vita: l’ho decriptato live all’Umanità tutta l'anno scorso, una seratona – se solo tu ci fossi stato). E poi tanto cine in televisione, a pranzo o a cena; gli appuntamenti col palinsesto da Sorrisi & Canzoni (a parte i tuoi quiz imperdibili, a cominciare da Rischiatutto) e più in là le videocassette consumate dei tuoi film-culto: Quella Sporca Dozzina, Testimone d’Accusa, Questo Pazzo Pazzo Pazzo Pazzo Mondo, Operazione Sottoveste, Tre Uomini in Fuga, La Stangata, La Grande Guerra, Momenti di Gloria, The Untouchables, La Signora in Rosso, La Vita è Meravigliosa, Sabrina, Io ti Salverò, Improvvisamente l'Estate Scorsa, La Strada, Un Provinciale a New York, Assassinio sull'Orient Express, Vincitori e Vinti, Roma Città Aperta, Il Generale Della Rovere, I Compagni, Sette Spose per Sette Fratelli, Un Uomo Tranquillo, Codice d’Onore, Z: l’Orgia del Potere, C'eravamo Tanto Amati, Fuga per la Vittoria, Indovina Chi Viene a Cena?, A Qualcuno Piace Caldo, Giulio Cesare, Ben Hur, Il Nome della Rosa... E Quo Vadis, naturalmente! Terza Liceo no, fatalità, non riuscimmo mai vederlo tutti insieme, nonostante il film di Emmer, girato ai primi del ’53 al Mamiani, fosse l’unica pellicola di sempre “con papà” (nel senso che lui, quell’anno maturando nello storico istituto di Roma-Prati/DelleVittorie, appariva come comparsa in una scena affollatissima di studenti che scendono la scala principale della scuola). E sì che ci faceva un po’ il fanatico! Non tanto per la performance attoriale, quanto per il fatto che alla festicciola della produzione di fine riprese un diciannovenne bel Vinicio avesse guadagnato un ballo con la protagonista, esordiente, nemmeno diciottenne, deliziosa Giulia Rubini (fate conto una Liz Taylor acerba e casta). Ma un altro dei nostri imperdibili era Nell'Anno del Signore. Papà ce lo fece intendere bene. Battuta per battuta, e si rideva tanto. E sequenza per sequenza; e si pensava, ci si emozionava, si capiva, si parteggiava. Poi magari passavamo per Piazza del Popolo e ci indicava l'iscrizione per il sacrificio di Targhini e Montanari. Il suo gesto silenzioso, personale promemoria alla lotta, alla libertà, alla giustizia. Talvolta coi lucciconi, come quando ci narrava di Spartaco, di Prometeo, o quando assorbivamo insieme le video-epopee dure e necessarie di Radici e Olocausto... Dopo via, a veder chiese e quadrerie del centro storico: quante ne abbiamo ammirate! …A proposito, papà: io, da due anni in qua, che ho fatto? In pillole: ennesimo fallimento politico, anzi aborto proprio, per le Europee del ’19; diminuita assai la mia gioia lavorativa, per un combinato di decisioni sistemiche e piccinerie umane che magari avrai scontato pure tu ai tuoi tempi, e te le risparmio. E ho scritto un altro romanzaccio, il seguito di Acheropita diciott’anni dopo: a (don) Giovanni è morto il padre da poco (che fantasia, eh?) e gira per Roma d’agosto, setacciando quadri e affreschi. Però ha messo la testa a posto. Si chiama L’Eterno Presente. L’amore, quello, è ok – meno male. I mici anche, dolcissimi. Studio sempre e faccio sempre sport. Ho il ricordo lontano, ma nitido, colorato, sonoro, dei suoi colpi di tacco. Inutili quasi quanto i miei, di una vita e ancora. Plettri lanciati dal palco. Lui, il primo “falso nueve” del pallone amatoriale. L'ultima volta che ho giocato a pallone prima del lock-down ho segnato un gol così. Cioè, non è proprio di tacco, semmai col piatto del piede d’appoggio, ma che è d’appoggio solo fino a un istante prima di toccare e dirigere il pallone… Insomma: mettiamo che tu sia destro e ti porti avanti la palla verso la porta avversaria più che altro col destro, e quando sei quasi a tu per tu col portiere, che si aspetta che colpirai col destro verso la porta (col piede sinistro in appoggio a terra, quindi), invece fai passare il piede destro sopra il pallone e lo poggi a terra e da così, con le gambe cioè incrociate, tocchi il pallone col lato interno (il piatto) del sinistro e lo spingi verso la porta nella direzione opposta a quella che pensava il portiere. Gol! Questo gesto non ha un nome. Non è una Rabona, né una Ruleta, o una Veronica, un Elastico, un Cucchiaio, un Aurelio… Non ha un nome perché richiede condizioni di tale relax amatoriale, per essere pensato ed eseguito, e per riuscire, che nel calcio vero non lo fa nessuno e manco nel calciotto o calcetto un minimo competitivi. E dunque nessuno l’ha mai codificato con un nome d’arte di quelli là. Però era un colpo che vedevo eseguire sempre a lui, io piccolo lui grande, che lo faceva insieme ad altri numeri per mostrare al bambino ciò che si può tentare prendendo dimestichezza con la palla. Tipica sbruffoneria dolce di un papà che non è certo un campione a pallone, e sa di non esserlo né fa nulla per spacciarcisi, però vuol far divertire il figliolo il quale, anche per quel minimo gioco di prestigio al campetto dei giardini, s’inorgoglirà del suo papone e pure, emulandolo, di sé stesso. E insomma ho fatto questo golletto; mi sa che in una partita per quanto amichevole non ci provavo da molti lustri. Mi parevo mio padre, ecco. Come se non gli somigliassi già abbastanza! Non ce l’ha un nome, quel colpo da ballerino di tango… Be’, adesso ce l’ha: ho segnato di Vinicio! Ancora una cosa sulla televisione, noi, tu – perché anche se non siamo mai stati drogati di TV (e gli effetti si son visti e si vedono, per fortuna) però inevitabilmente il piccolo schermo ci ha accompagnati per tutta la vita: la tua e di mamma da metà Anni ’50, con quella grande rivoluzione che fu per tutti in Italia, e la nostra di famiglia finché siamo stati con voi due noi figli, e poi pure dopo per il vostro relax di coppia (e ora, a far compagnia alla mamma sola soletta). Oltre a quelli già menzionati e altri che citerò poi, tra i prodotti della tele per la tele (film e sport a parte, cioè) che fanno un po’ da mancorrente al cammino di casa nostra ricordo qui alla spicciolata: Nero Wolfe, Odissea (lo rivedo in dvd una volta all’anno), E le Stelle Stanno a Guardare, La Vita di Leonardo da Vinci (rivisto pure lui), Il Segno del Comando, A come Andromeda, Spazio 1999, Sandokan (tu eri un fan di Salgari – io invece di Verne), I Sopravvissuti, Alla Conquista del West, Gesù di Nazareth (rivisto più volte), Visitors... e naturalmente Quark, dall'Aria sulla 4ta Corda di Bach all'ultima sillaba di Piero Angela. Poi ci metto il teatro, di Eduardo e non solo, che spesso la RAI mandava in prima serata (e su un canale generalista, di due che ne aveva: incredibile, vero?). Poi ci metto tutte le stagioni di Giochi Senza Frontiere (l’estate non era tale senza il fischietto di Pancaldi e Olivieri a risuonare dalle finestre aperte mentre il luccichìo azzurrino delle TV rimbalzava nell’aria tiepida tra i palazzi di Roma – e inoltre io e Giorgio abbiamo cominciato a farci un’idea dei caratteri dei popoli europei proprio da lì, coi commenti divertiti tuoi e di mamma). Poi tutte le trasmissioni di Tribuna Politica e simili, pre-voto di campagna elettorale e post-voto di analisi risultati: mai persa un’elezione (volevo dire: mai persa come osservatori, perse quasi tutte come elettori – purtroppissimo!). Poi alla rinfusa il varietà musicale o non di Canzonissima, Sanremo, Senza Rete, Odeon (e finché Giorgio non ne imparò la sigla, il feroce Honky Tonky Train Blues suonato da Keith Emerson, tu non fosti soddisfatto!), Non Stop e Quelli della Notte. E infine ecco un quadretto sull’evento che tra poco a giugno spegnerà cinquanta candeline esatte. Dunque… Io c’ero, davanti al televisore, bombatissimo e largo e profondo come un comò – due tasti soltanto per i canali, una sola manopola per il volume, e si accendeva previa attivazione di un trasformatore ronzante in ghisa che pareva un congegno della jihad. Mercoledì, mezzanotte, Paoletto e Vinicio seduti ai posti migliori, Enrica adagiata sulla sdraio appena di lato, Giorgiettino di là da venire fra un anno scarso. Pronti, via: el Partido del Siglo (c'è tanto di targa bronzea all'ingresso dell'Azteca)! Al fischio conclusivo dell’arbitro, ore due della notte abbondanti, dopo tutte le esultanze e tutti i collassi, dopo gli abbracci tra noi e i canti insieme al vicinato, con la gloria e la Storia ancora negli occhi e nelle orecchie, papà, noto esperto artificiere, pensa bene di festeggiare ancora accendendo un petardo, all’uopo comprato chissà dove e in segreto per scaramanzia, posizionato sul davanzale della finestra della camera da pranzo. Ha la forma di un jet, e lui lo direziona col muso affusolato verso fuori. Giusto sulla punta è anche la miccia. L’accende, aspettiamo, io eccitato, mamma preoccupata. In tre secondi si consuma e… WOOSH BUM CRASH!!! Ovviamente il missilotto aveva rinculato in sala, sulla parete opposta. Quella del mobile a vetri coi servizi buoni, molto Anni ’60. Fine della carriera brevissima di un mortarettaro; quasi fine prematura di un matrimonio. Ma eravamo in finale! Italia-Germania 4a3!!! L’allunaggio no, non tutti insieme. La notte del 21 luglio del 1969 restammo svegli in tre fino al contatto del LEM col suolo lunare (la diatriba fra Tito Stagno e Ruggero Orlando!); però fino all’alba, per vedere il "piccolo passo" di Neil Armstrong lasciare quell’impronta "da gigante" a 340.000 km da qui, restò incollata allo schermo incantato solo la mamma: la resistenza amorosa delle donne! …worker… Tu e le donne. Ti trovavano speciale, a occhio e croce, e le trovavi speciali anche tu; perché in effetti lo sono – in un senso che non so dire ancora, benché io abbia ormai la barba bianca (e quindi non saprò dirlo più, mai). Quando andasti in pensione e salutasti colleghi, collaboratori, amici di lavoro, io c’ero. E le ho viste le ragazze, dell’età mia, nei tuoi staff, che non dico fossero a pezzi come le fan dei Beatles quando venne fuori che John o Paul si sposavano a giorni… ma poco ci mancava! E, altra occasione, una ragazza, anche più giovane di me, che mi piaceva – e a lei piacevi tu, evidentemente, forse a tua stessa insaputa –, che ci baciammo, finalmente, ma poi mi disse guardandomi “sei bello… però certo tuo padre, quegli occhi…” E va bene così. Ho scritto che eri mite, e buono. Sacrosanto! Però avevi i tuoi cinque minuti; e come spesso capita ai tranquilloni, erano tellurici. Discutesti una volta a pranzo con mamma, di nulla; stavamo in cucina, casa di via Angelo Emo, ed era con noi Massimiliano, il mio amichetto del cuore, uno di famiglia. Avrò declamato io qualcosa di storto, di iconoclasta – come suole l'adolescente, poi al cospetto del compare... –, e mamma avrà alzato gli occhi al cielo dicendo "colpa nostra, che li abbiamo educati male: siamo tutti peccatori!" (che poi mia madre è l'antitesi della bigotta, ma pure quello era un po' teatro). Al che, tuo il colpo di scena: "Io non sono un peccatore! [alzando la voce] Io li ho educati bene! [gridando proprio]" e afferri la prima cosa che ti sta a portata senza alzarti dalla sedia, lo scolapasta (vuoto) sul lavello, e lo scagli a terra. Ma è di quel moplem che l'Homo Sapiens lascia in eredità agli eòni, e quindi non si rompe: perdi l'effetto. Ma non ti perdi d'animo: ti alzi, e con un balzo agile (inusitatissimo) salti a pie' pari sul manufatto incolpevole, testuggine di plastica eterna, e ci rimbalzi sopra due o tre volte finché non c'è che un fiore di petali arancioni spiaccicato sulle piastrelle bianche e grigie. Ti risiedi, inforchetti la spaghetta e soffi "'Mbè!". Mamma trasecola e ci guarda: "Sto con un pazzo!". I tre imberbi (Giorgio compreso) battono le mani estasiati; alle finestre si annuncia già l'estate. Maggio. Maggio è un mese particolare, e lo era anche prima – di risonanze. È il mese della corsa in rosa, tanto per dirne una: del Giro d'Italia; che infatti quel giornalismo dalle regole tutte sue proprie, regole di poetica, di epica e di retorica che gli si perdonano volentieri per amore, cioè il giornalismo della bicicletta, chiamava a volte la Sposa di maggio. Questo maggio 2020, poi, particolare come mai prima a memoria d’uomo, il Giro non si è corso: una foratura generale, universale, lo ha impedito – un chiodino a forma di corona, microscopico, ha bucato tutte le ruote. È il mese delle spose, comunque, ma pure del divorzio vittorioso al referendum; e delle rose, anche. E quelle, per fortuna, crescono e fioriscono con tutta la Natura – corona o non corona. Maggio è così, contraddittorio: la primavera in piena esplosione e verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte, e i mille papaveri rossi che comunque fan veglia dall'ombra dei fossi. Il mese del Piave mormorava calmo e placido, quel mese del 1915 in cui un'Italia contadina e proletaria (ma per nulla Grande) viene gettata in guerra da un'altra Italia aristocratica e borghese; e però la canzone celeberrima fu scritta nel '18, dopo le controffensive sul Piave, appunto, che riscattavano Caporetto e porteranno dritti alla vittoria finale di Vittorio, appunto, Veneto. Canzone quindi che con un occhio piange, per l'inutile strage, ma l'altro ride perché non passa lo straniero. Il maggio di Nerina, che a radunanze, a feste / Tu non ti acconci più, tu più non movi... /...per te non torna primavera giammai, / non torna amore; di Silvia, che sedeva, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi... / ...e tu solevi / così menare il giorno. E Non è di maggio questa impura aria / che il buio giardino straniero... È il maggio di Aldo Moro, ovviamente, e di Peppino Impastato, di Falcone a Capaci. Di Karl Marx, nato il giorno 5 due secoli fa e qualcosa. E sempre il 5, ovviamente, da due secoli meno qualcosa, è siccome immobile l'Ei fu. Il maggio degli Stati Generali, la scintilla della Rivoluzione Francese nientemeno; e poi, ultima coda forse di quella vampa, della Comune di Parigi sempiterna nella memoria delle masse del Mondo coscienti di sé come classi – tanto quanto fu breve come esperienza, incomparabile. Maggio è anche il 4, giorno, del 10, civico, di Downing Street: la prima volta di Thatcher, quarantun anni fa. Ed è Superga, ancora il 4 infame, settantun anni fa, quando morì il Grande Torino e ne nacque immortale un amore da parte di tutta l'Italia di qualunque bandiera. Mio padre, romanista ripeto, eppure innamorato a vita di quell'Undici scolpito nella leggenda: Bacigalupo-Ballarin-Maroso... Mio padre che detestava la Lady di Ferro appena meno di quanto detestasse Reagan! Che stimava Moro, come lo stimano tutti i comunisti per bene; e come tutti si commuoveva per I Cento Passi (ogni volta, dice mia madre) specie ai pugni chiusi, alti in corteo, del finale. Che ci insegnava l'onore della legalità – anzi, ce lo mostrava semplicemente. Mio padre che visse bambino un poco a Vittorio Veneto, scampando da altri orrori di una seconda guerra carnefice finita poi di maggio, l'8, del '45. Mio padre che mangiava pane e ciclismo, col Giro d'Italia a fette prelibate. Mio padre e i suoi Manzoni e Leopardi e Pascoli, faccia a faccia col nostro De André; il suo Gramsci, col nostro Pasolini. E viceversa. Mio padre che l'inglese lo masticava poco o nulla ma il suo francese lo spolverava ancora e sempre, e declamava appassionato La Marsigliese come avesse una coccarda in petto! Maggio delle rose, maggio delle mamme. Mia madre – sposa di dicembre, però, e poi tutta la vita – mette sempre una rosa fresca dirimpetto a mio padre, cioè all'urna gradevole in legno chiaro a guisa di librone che ne contiene le ceneri tra gli altri suoi tanti libri. Mia madre: amore e coraggio. Si 'stu sciore torna a maggio / pur'a maggio io stonco ccà. Vinicio gliela cantava sorridendo, in quel suo modo irripetibile che aveva di sorridere dolcemente con tutto il viso. husband… La musica. Quanta ce ne hai fatta sentire! Ti piacevano Baglioni e Battisti, ovviamente, e Tenco (specie la sigla del Maigret televisivo, con Gino Cervi), Mina, e forse la Vanoni anche di più, e Mia Martini; adoravi Edith Piaf e Bing Crosby, e Louis&Ella, Burt Bacharach, quel dono-di-dio di Stevie Wonder e (ci mancherebbe!) Vinicius de Moraes; ma applaudivi pure i primi Ricchi e Poveri, e tra le nuove apparizioni avevi adottato Giorgia (poi, ancora dopo, dice mamma, un trio che si chiama Il Volo – io però non lo conosco). Ci hai fatto conoscere gli Inti-Illimani… Anzi, il loro concerto alla Basilica di Massenzio, Anni ’70 maturi, dove mi portasti inaspettatamente, è stato il mio primo evento live poprockfolk! Gaber invece – che pure amavi – mi ci ha portato mamma a vederlo e sentirlo, qualche anno dopo, al Giulio Cesare quando era ancora un cinema-teatro mono(grande)sala. (E forse questo bel concerto fu l'ultimo che vidi con voi – tutti e due, o uno alla volta –, decollando poi la mia traiettoria da adolescente che per sale, palamusica e stadi ci va per conto suo. Tranne ovviamente quando a esibirsi ci fosse uno dei nostri consanguinei, anti-statisticamente dotati di talento e baciati da qualche successo nel campo: in tali casi si è andati ad applaudirli tutti insieme fino a... sempre!) Avevate, io piccolo, pile di 45 giri comprati da Consorti (poi Ricordi, ora Feltrinelli) pur senza mai ricordarne né titolo né autore: risolveva una tua breve esecuzione unplugged del brano a beneficio della commessa/cassiera (imbarazzata? innamorata?). E comunque il tuo, vostro, nostro, di tutto il famiglione espanso fino all’ultimo nato più recente, e anche di chi man mano negli anni e decenni si è avvicinato come amico, fidanzato, congiunto di qualcuno degli Andreozzi, che sia poi rimasto del giro oppure no – ebbene, è Lella: senza dubbio! Quella ricca – ed è letteralmente impossibile ora, per me e per chiunque, ascoltarla e viepiù canticchiarla senza pensare intensamente a come la personalizzavi tu nel magno choro, specie il famigerato falsetto dopo ma nun lo fa’ sape’! Ma per dire meglio che tipo eri: ti piaceva anche Elton John, però solo da quando il grande pubblico della TV poteva dire di conoscerlo per aver visto in prime time il suo storico concerto a Mosca (o era... Leningrado?) mi pare del '79. Ti divertì, mi ricordo, la performance di Ray Cooper, quel pazzo di percussionista che suonò lì con lui; tanto che dopo, se capitava che anche tu giocassi ai miei e di Giorgio, e cugini, sempiterni lambicchi da nerd del tipo "creiamo la super band di tutti i tempi", alla batteria ci mettevi Cooper (e alla voce i Platters, tutti insieme: sempre!). Quindi eri uno spettatore e un consumatore medio; né hai mai voluto spacciarti per un esperto di chissà quale originalità in quei campi su cui, senza alcun imbarazzo, ammettevi di surfare per il puro gusto della fruizione tranquilla, della curiosità (intelligente), dell'intrattenimento (quello che ci migliora per quanto possa, però). E mi piacevi, mi piacerai sempre, anche per questo profilo leggero, perfetto contraltare alla tua solidità, e serietà, nei campi invece in cui ti sapevi preparato come pochi, il che ti è stato sempre riconosciuto. (Magari tanta altra gente! E magari pure io stesso, che invece son diventato un fottuto snob sui gusti mainstream!) Ti chiedevo: il più grande virtuoso classico del '900? Risposta: Josè Iturbi! ...Perché aveva i suoi cameo nei grandi film di Hollywood degli Anni' 50, la tua giovinezza. Il più bel pezzo per pianoforte? Il Concerto di Varsavia, di Addinsell! ...Perché faceva da leitmotiv a un filmone inglese sulla Seconda Guerra Mondiale. E insieme a Mozart, Beethoven e Bach chi ci metteresti? Togli Bach, metti Chopin, e comunque Ciaikovskij! ...Per la meravigliosa sequenza in Fantasia di Walt Disney, lo vogliamo dire? Lo Schiaccianoci... La domenica mattina, nel bagno della prima casa, su ai Monti di Creta, tu ti radevi allo specchio del lavandino, io ero immerso nella vasca bollente fino alle orecchie, mamma che entrava e usciva, tra badare a che io mi lavassi, anche, e di là al nuovo arrivato coi suoi bisognini... E c'erano due colonne sonore che si alternavano: prima un 33 giri che girava sul piatto con piccole casse che spostavi dal salotto e mettevi in bilico su un davanzale, apposta perché tu e io sentissimo meglio, disco che poteva essere quello con la suite dal balletto, appunto, quell'ouverture, quelle danze bellissime e strane, quel Valzer dei Fiori ipnotico, oppure la Rapsodia in Blue, di Gershwin, la mia prima infarinatura di crossing over tra classica occidentale e jazz afroamericano, oppure le canzoni tradizionali romane interpretate dalla voce chiara e stentorea di Alvaro Amici; e poi la radio, la radio del popolo che eravamo senza superfetazioni, pasolinianamente (direi ora), Gran Varietà, Il Gambero, Campo de' Fiori... E certo che mi lessavo, in quella vasca! Ci sarò stato ore ogni volta... O sembravano ore allora, come succede; come abbiamo tutti sperimentato. Dopo arrivavano i profumi succulenti dalla cucina: mamma aveva preparato il signor pranzo come usa (i vincisgrassi marchigiani? il fritto alla romana? il rollè farcito?); tu apparecchiavi, con dedizione. Ti è sempre piaciuto mangiare, mangiare bene, e bere giusto. Perché fa bene, tutto questo; e fa famiglia. La famiglia bellissima nostra, e quella immensa in cui nascesti e crescesti – i tuoi genitori, otto con te tra fratelli e sorelle, a lungo anche una nonna in casa e altre figure di parenti e intimi, qualche bel gatto; e poi a cascata, negli anni e decenni appunto e con gli amori loro rispettivi, tutti i vostri figli, cioè cugini miei, e i figli ancora dei figli, ultimi rami, foglie più tenere, gemme appena sbocciate. E intanto la fusione con la seconda famigliona magnifica, di mamma, coi nonni dolcissimi, e altri zii, altri cugini, e altri frutti nuovi, altro affetto, altra amicizia sempre e per sempre. Che a mettere tutti quanti insieme a tavola non bastava una mensa! Io sempre vegetariano, a proposito. Non ti è mai piaciuto, lo so. E poi Tutto il calcio minuto per minuto, il rito centrale dell’intera domenica. Ancora la radio per protagonista, voci di aedi a cantare gesta di eroi – i nostri, in giallorosso: in quegli anni Losi e Santarini, poi verranno Rocca e Pierino Prati, dopo Pruzzo, Bruno Conti, Falcao il divino e il capitano eterno Ago Di Bartolomei, e dopo ancora (sempre meno di radio e sempre più di TV, e non solo la domenica ormai) ecco Giannini e Rudi Voeller, ecco Aldair e Batistuta, Totti e De Rossi; ma allora ci raccontavi anche del prima, con voce flautata e sguardo sognante: di Amadei, di Masetti, di Arcadio Venturi, di Alcides Ghiggia, di Da Costa, di povero Taccola – i quali avevi applaudito di persona, e pure di quelli che qualcuno ti aveva raccontato a sua volta: Ferraris IV, Fuffo Bernardini, Guaita, Volk... della Roma di Campo Testaccio. Il calcio, e il tifo, come una delle chiavi di lettura di un secolo; tu che diventasti della Roma col papà napoletano e i due fratelli maggiori della Lazio, però stregato dalla prima partita che vedesti dagli spalti, dello Stadio del Fascio (all'epoca; poi Stadio Torino, dopo la tragedia; e poi ricostruito come Flaminio, purtroppo adesso lasciato alla malora): un sontuoso 6 a 0 rifilato all'Ambrosiana Inter, col quale la Magica si avviava al suo primo scudetto proprio davanti ai tuoi occhi di bambino! Fu un colpo di fulmine, ma per la vita. Ed energetico al punto di farti emulare nella passione giallorossa dai due fratelli più piccoli, cosicché tra i maschi di casa il tifo per i Lupi conquistò la maggioranza! Non solo del football: anche del ciclismo eri innamorato; e ben oltre il raggio della già citata "corsa in rosa". Negli ultimi lustri hai creato in effetti un database statistico e comparato, ragionato, dell'intera epopea mondiale sui pedali; che se soltanto avessimo nel DNA un'oncia di istinto commerciale, be' ti avrebbe già portato ad esser conteso da editori e testate di settore o, perché no? a condurre una trasmissione sulla storia della bici professionista! Tu e Giorgio, magari: insieme, come insieme avete sempre condiviso tifo, calcoli e memorabilia in questo nobile campo e antico, da Girardengo a Sagan, passando per... tutti quanti; e dalla Liegi-Bastogne-Liegi al Giro degli Emirati, senza saltare una corsa in linea o a tappe. E lui continua l'opera vostra, stanne certo! ...Ma se devo rintracciare un precedente, quantomeno analogo, forse è il gioco enciclopedico-computazionale che prima ancora ingaggiò te e zio Fulvio – fratello minore, consecutivo in ordine però di buoni cinque anni – sui campioni della boxe, dall'epoca delle regole del Marchese di Queensberry fino, diciamo, alle sfide omeriche Duràn-Leonard: oltre cent'anni di numeri e guantoni! Comunque: 1952, Giro d'Italia, tappa a cronometro Roma - Rocca di Papa. Tu hai diciott'anni, con gli amici decidete di partire dal Trionfale con le Lambrette, salire su per la Via del Laghi e giungere all'arrivo per appludire i vostri miti, uno ad uno. Dopo però lungo gli ultimi tornanti vi fermano, perché da lì in poi intralcereste la corsa, e allora buttate i dueruote sull'erba e vi piazzate meglio possibile, aspettando il prossimo campione. E da sotto, dalla valle – ce l'hai raccontato mille volte – sentite un brontolio che sale, un brivido che scuote il vulcano di Roma, quasi l'accende, e diventa un saluto, un grido, un osanna! Dalla rampa proprio sotto di voi vedi già la gente alzar le braccia al cielo, all'unisono con la scalata dell'Airone. Che scherza la pendenza, si raddrizza sul nuovo rettilineo, la sua maglia è biancoceleste, a trenta metri da voi, da te. Ora venti. Dieci metri, nel boato. Ti inginocchi, senza neanche saperlo, deciderlo. E quando è per sfilarti davanti urli: - Fausto Coppi, sei un dio! E' tutto un decimo di secondo, lui ti guarda, sorride. here student… - Sto scrivendo un racconto, papà. Forse verrà fuori un romanzetto... - Grande! Di che parla? - Mah... niente, tutto... Da Stravinskij alle Torri Gemelle, diciamo, con un sacco di matematica e di politica in mezzo. - E' proprio da te! Ce lo farai leggere subito, sì? ...Come si chiama? - Acheropita, come una cosa fatta non da mano umana... - Come una reliquia? L'impronta? [ridacchiava] Modesto! - Eh... Lui si chiama Giovanni, un casinista con le ragazze... Non sono io! E' più piccolo di me di dieci anni! - [serio] Ma tu e Roberta vi vorrete sempre bene comunque, no? - Certo papà, tutta la vita comunque! E viaggiavamo: le vacanze estive, le gite stagionali e i raid secchi “fòri Porta”. A un raggio compatibile col nostro ceto medio, sicuro, ma non ce l’avete mai fatto mancare, neanche questo: tanta Italia, di mare e di montagna, e borghi e scavi e città d’Arte, la nostra Jugoslavia amatissima, dalla mitica Kranjska Gora e via andare, Parigi… E poi tu e mamma, finalmente senza ragazzini cui badare, con qualche disponibilità in più dalla liquidazione, da soli o insieme a cari zii e zie a geometria variabile, vi siete gustati altre avventure: ancora Francia, ampiamente, e Belgio, Olanda, Lussemburgo, un po’ di Germania e Svizzera, poi in crociera tra Grecia continentale, Turchia e Creta, ancora in crociera ma fluviale lungo il Danubio, dall’Austria alla Slovacchia, all’Ungheria, e la Spagna, la Tunisia, ancora Turchia, profonda, e Londra proprio pochi anni fa, e ancora Italia, tutta quanta, di montagna e di lago, di mare e di isole grandi e piccole, e d’Arte e di Storia, e di cucina… Ci resocontavi tutto, al ritorno; lo vivevamo con voi: mamma al reparto immagini, foto e video, tu reparto parole e mappe stradali, scale cartografiche. E menu. E le monete di tanti Paesi, in una collezione informale ma alimentata con cura e res gestae di contorno. Grazie, pure di questo! E ci raccontavate gli spettacoli teatrali, quelli dell'abbonamento (uh, stavo per scordare i vostri – e quindi anche nostri – show-cult dei tempi d'oro, con tanto di LP a girare e girare sullo stereo di casa: A Me gli Occhi Please, Gigi Proietti, e Aggiungi un Posto a Tavola!); e poi le visite con la società archeologica, le escursioni paesaggistiche... In più, ci chiedevate tutto delle nostre piccole e grandi scoperte a zonzo, vicine o lontane: le respiravate tramite noi. Hanno arato, quei momenti perfetti. Arato e seminato, e fruttificato poi. Me ne avvantaggio ancora – e adesso, che manchi; che proprio mi serve. Hai lavorato tanto, prima di quel pensionamento atteso e temuto insieme. Tanto e bene, lo si vede dai risultati, dalla tua crescita nel tempo, dalla stima profonda che ti ha sempre circondato – e io personalmente lo deduco anche dal fatto che pur essendo il tuo lavoro situato sempre in prossimità della politica che amministra, nella formazione e nell’occupazione, nel diritto stesso dell'ente e da ultimo nei suoi bilanci, non ti ci sei arricchito! (E infatti il tuo impegno ulteriore nelle richieste consulenze extra-moenia, certo ci faceva comodo.) Hai servito l’istituzione, come si dice, cioè il territorio, cioè la gente, noi, con professionalità e con imparzialità, senza cedere a lusinghe né temere ritorsioni. Estremizzando un po’, ti starebbe bene per ciò una mia vecchia maglietta da corteo con scritto “padroni di niente / servi di nessuno” – ti sarebbe stata bene, cioè, se l’avessero mai prodotta XXXL, adorabile omo-de-panza che diventasti con gli anni! Di panza e di tanta coscienza. E lo dico con particolare cognizione di causa, avendo condiviso con te lo stesso macro-datore di lavoro, la Regione Lazio, per sei annetti. Coscienza. Credevi in un dio? Nel Dio dei cristiani, nel cui rito fosti battezzato (“In San Pietro!”, ricordavi con malcelato orgoglio), sposato e tutto il resto? No – direi di no. Ma non ne hai mai fatto una questione talebana, anche lì pacificato: “Mamma ci tiene? Va bene: per lei è importante, per me fa lo stesso. Voi ragazzi saprete che pensarne con la vostra testa” Comunque Papa Giovanni l’hai tanto ammirato, lo dicevi sempre; Wojtyla no, e ti credo! Ma poi, nessuno può davvero dire cosa realmente abiti in ogni singolo angolo del cuore di nessun altro – neppure di un padre, o di un figlio, o dell’amore di una vita – com’è giusto che sia. E io non so – non saprò mai, nessuno lo saprà, neanche mamma – cosa pensavi nei momenti di rilassato silenzio, sempre più frequenti negli ultimi mesi, di contemplazione del tutto del quale ognuno di noi, chi più vicino chi più lontano, insieme ai tuoi giorni recenti e quelli antichi di ottantaquattro anni, in un rondò forse bergmaniano, doveva far parte ai tuoi occhi. Non parlo di un dio, ma molto di più: del mistero dell’arcobaleno dell’esistenza così come deve apparirti quando sei quasi al cospetto, e lucidamente lo sai nell’ordine naturale delle cose, del secondo e ultimo piede della campata, di quell'unica, non più ripetibile, avventura nell'esserci. Non lo so – ed è giusto: non è ancora quel tempo per me. here was young… Due anni oggi. La morte di papà, così quasi improvvisa, ha staccato le nostre candele dalla base di cera colata lungo tutta una vita, la vita di una coesione serena, fortunata. Le ha recise da sotto, la candela che è nostra madre, la candela che è mio fratello e la mia, le ha fatte ondeggiare paurosamente. Traballano ancora, tanto. ...Ma non siamo caduti, papà. E non ci siamo spenti, non siamo al buio, non siamo freddi. Ci teniamo su, ritti e luminosi, l'un l'altro appoggiandoci, piegando la fiamma al vento del dolore indicibile e rialzandola alla forza del grato ricordo, del lascito d'amore. E le compagne della nostra vita, Valentina e Debora, proteggono anch'esse il nostro durare affinché nuova cera coli alla base e saldi un patto nuovo con l’esistenza. E tutti gli altri affetti profondi che proteggono la mamma, oltre noi. E lei, nostra madre, che da sola ha il compito più difficile e superbamente lo svolge! Nonostante la perdita ulteriore, sì, recente, di suo fratello. Il nostro amatissimo zio Franco – amico tuo di una vita, prima e oltre che cognato. Ma sostiene lei tutti, Enrica, sorretta da ciò che di te, di voi due insieme, avrà dentro per sempre. “Qualcuno che vegli su di me”, Someone to Watch over Me, lei ce l’ha – lo dice sempre, da due anni: “E’ Mimmo mio!” Quindi sta’ tranquillo per lei, per Mimmotta tua – davvero. Io non vorrei altro dal dopo-di-me, per chi amo. Tu ce l'hai, l'hai ottenuto. Perché sei stato un uomo. L'hai meritato. Sappilo. Qui ti ricordano tutti, ti pensano, ognuno ha una storia nel cuore con te – anzi, molte! E ti vogliono un mare di bene – come sempre. Ciao papà, Vinicio. Epico nome, anima grande. Lui è qui con noi. Con un occhio che ora piange e l’altro ride. I suoi occhi grandi come mondi, belli come notti stellate. here he was born and he lives again. …Ma ecco che un micio dei nostri mi ha sfiorato la gamba, mentre digito queste ultime sillabe; è soffice e caldo, mai troppo sazio. Mi porterà di là, dagli altri, che aspettano per mangiucchiare tutti insieme. Gatti e umani – fa famiglia. Eccola una via, un po’ di spirito; una traiettoria, alla giusta scala della vita.
3 Commenti
Con questo smartworking la casa ci si è trasformata nella succursale dell'ufficio mio e in quella dell'azienda di mia moglie. Solo che io lavoro 36 ore a settimana, e lei 50.
Perciò 14 ore io le passo in un ufficio che sembra casa mia, ma dove non si può nemmeno tirare la catena sennò lo sciacquone si sente in videoconferenza. "E non passarmi dietro in mutande, che ti vedono!" In compenso di ore gliene pagano 30. Palestre e piscine chiuse, calcetto bloccato. Poco male, io lo sport lo faccio fuori in bicicletta. Lei no. Di sport fa yoga e pilates. Dove? A casa, lezioni in diretta dal pc. Quando? Quando non lavora. Quanto? Spesso. Quindi, oltre alle 14 ore di cui sopra, io ne passo altre 5 o 6 in un posto che sembra casa ma è un ashram di recupero per quadri stressati. Quasi sempre alle 7 di mattina. Dorme male. E chi no? C'è l'apocalisse della peste in corso! Però lei se e quando ha preso il sonno non può più permettersi di perderlo. Nessuno deve più muoversi nel raggio della camera da letto, nessun rumore nel raggio di tutta casa! Perciò quando lei dorme ci sono un uomo e tre gatti auto-consegnati alla paralisi: non si piscia, non si soffia, si respira a turno. La marchesa del grillo. E poi sente sua madre al telefono, che le chiede "Amore, allora come va lì?". Lei risponde: "Mamy, alla fine bene lo sai? Stiamo facendo tutti un grande sforzo per attraversare meglio possibile questo periodo. Certo, lui è sempre un po' nervoso, e pure i mici fanno un po' di testa loro... Ma è perché non si ascoltano davvero. E dovrebbe volersi più bene. Prima o poi gli spiego quanto è facile e bello!" "Brava, a mamma!" In smartworking non sai più se tua moglie parla con te dall'altra stanza o sta in conference call. "Ma ti pare che dicevo a te? In inglese??" "Be'? Delle volte non ci parliamo coi versi dei Beatles o dei Radiohead?" Lei comunque ha scoperto qualcosa che la rincuora. "Ti sentivo, prima. Ma allora non sei acido solo con me!" "Con te però lo sono gratis, mi viene proprio naturale. "You're just a creep!" E tuttavia oggi, 28 maggio, nel 1871, la Comune di Parigi muore – ossia, ne viene uccisa quella parte che di un capitolo di Storia può esser distrutta; ma è solo una parte, appunto, come leggeremo alla fine nei giudizi di due Giganti.
Comunque, i fatti: la Settimana di Sangue, cominciata il giorno 21. Francesi contro francesi – anzi, propriamente: francesi ricchi e loro lacchè, e sociopatici e criminali semplici e soldati abbrutiti dall’obbedienza cieca, contro francesi poveri e loro difensori, francesi giusti, persone per bene; perché di ciò si trattò (e si tratta sempre e ovunque, in ogni Rivoluzione). Il 21 maggio il Primo Ministro Thiers rassicurava il Cancelliere Bismarck (la resa alla Prussia era stata firmata appena il giorno 10 ma le pretese dell’élite straniera e vittoriosa – un attimo prima nemica, ora complice – si accordavano perfettamente con gli appetiti dell’élite locale sconfitta, convergenti entrambe sullo schiacciare l’esperienza di autogoverno del popolo parigino): “l'ordine sociale sarà ristabilito nel corso della settimana”. Quel pomeriggio una spia segnalò agli assedianti che il settore di Saint-Cloud era senza difese, e i primi distaccamenti del reggimento di Versailles entrarono a Parigi. Le truppe occuparono lo spazio tra le fortificazioni e la ferrovia. Nella notte si vedevano già dei corpi ammassati lungo i muri di rue Beethoven, tutti morti, fucilati dai soldati di Versailles. Era cominciato il massacro dei prigionieri federati, cioè comunardi, partigiani. Il 22 maggio batterie di cannoni bombardavano Parigi dalla collina di Chaillot. La cittadinanza fu chiamata alle armi con un manifesto: “Si tratta di vincere o cadere nelle mani senza pietà dei reazionari e dei clericali di Versailles, di questi miserabili che hanno venduto la Francia ai Prussiani e che ci fanno pagare il prezzo dei loro tradimenti”. Una ventina di membri del Consiglio della Comune si riunirono per l'ultima volta all'Hôtel de Ville, decidendo di rientrare ciascuno nel proprio quartiere per combattere e dare l'esempio. Moriranno tutti in battaglia, o saranno fucilati sommariamente. Nelle strade si elevavano ovunque barricate – se ne contarono centosessantaquattro – dove erano attivi anche donne e bambini. I soldati del governo francese, ormai in numero di 130.000, avanzavano lentamente: violenti combattimenti si segnalarono nel quartiere delle Batignolles, a nord, dove i tedeschi ancora intorno alla città avevano permesso a una divisione ex-nemica di attraversare le loro linee, prendendo alle spalle i comunardi. Caddero così l’Eliseo, Gare Saint-Lazare e l’Ecole Militaire, e vennero investite la Concorde, Mont Sanite-Geneviève e la Butte-aux-Calles, mentre Thiers dichiarava all'Assemblea di Versailles: “L'espiazione sarà completa!” Il 23 maggio la Comune fece affiggere sulle strade di Parigi un appello ai soldati di Versailles: “Come noi, voi siete dei proletari; come noi, voi avete interesse a non lasciare più ai congiurati monarchici il diritto di bere il vostro sangue, come essi bevono i nostri sudori [...] Venite con noi, fratelli, le nostre braccia sono aperte”. L'esercito continuò imperterrito l'avanzata. La caduta di Montmartre, avvenuta senza quasi opporre resistenza, provocò scoraggiamento tra i federati. Venne perduta l’Opéra, centinaia di parigini furono fucilati al Parc Monceau, altri trecento alla Madeleine, trentasette in rue Lepic, quarantanove in rue des Rosiers – tra di essi, tre donne e quattro bambini. Parigi bruciava. L'aria era piena di un odore acre di fumo, il cielo notturno tutto illuminato di un bagliore rosso. Le artiglierie versagliesi, caricate a proiettili a petrolio, provocarono incendi al Campo di Marte, al ministero delle Finanze, alla Concorde, a Palazzo Borbone, al Luxembourg. Andarono a fuoco il teatro di Porte-Saint-Martin, i magazzini della Villette, le manifatture Gobelins e circa duecento case di abitazione. La stampa borghese e il governo di Versailles crearono la leggenda delle pétroleuses, popolane che avrebbero esse stesse appiccato gli incendi per far terra bruciata contro l’esercito entrante. Falsa, ma costò la vita a centinaia di donne accusate di gettare petrolio nelle cantine: ogni donna mal vestita che portasse un recipiente per il latte, una boccetta, una bottiglia vuota, poteva essere un'incendiaria, trascinata in brandelli al muro più vicino, veniva finita a revolverate. La mattina del 24 maggio i versagliesi catturarono le cannoniere ormeggiate nella Senna e proseguirono l'occupazione del quartiere del Louvre, della Banca di Francia e della Borsa, facendo saltare in aria la polveriera del Luxembourg. Superate le barricate di rue Soufflot e di rue Gay-Lussac, raggiunsero il Pantheon e vi massacrarono centinaia di federati e di semplici sospetti. Il 25 maggio i comunardi dovettero ritirarsi verso la Bastiglia. Tutta la riva sinistra era nelle mani dei soldati che attaccarono il Marais. Nei quartieri occupati, per fucilare i prigionieri, troppo numerosi, i versagliesi usarono le mitragliatrici. Il 26 maggio i quartieri della Bastiglia e della Villette resistettero ancora per quasi tutto il giorno, poi i difensori ripiegarono a Belleville, l'ultimo bastione da cui tentare una resistenza: sparavano sui versagliesi con i cannoni piazzati sulle Buttes-Chaumont e nel cimitero di Père-Lachaise. I soldati di Thiers e del Maresciallo Mac-Mahon, per rappresaglia, passavano all'esecuzione dei feriti ricoverati negli ospedali e nelle ambulanze. Il 27 maggio i versagliesi diedero l'assalto a Belleville. I combattimenti si concentrarono al Père Lachaise, dove i partigiani avevano piazzato due batterie di cannoni, una davanti alla tomba del duca di Morny, l'altra ai piedi della piramide della tomba di Félix de Beaujour. Distrutta la grande porta a cannonate, provocate altre brecce nel muro di cinta, l’esercito penetrò nel cimitero, dove si combatté fino a notte avanzata. L'ultima resistenza fu all'arma bianca, tra le tombe di Nodier e di Souvestre, davanti al monumento a Balzac. I feriti vennero finiti con un colpo di grazia e i centoquarantasette prigionieri fucilati contro il muro che porta ora il nome di Muro dei Federati. (Io l’ho visto, più volte. La lapide in pietra ocra, la scritta rossa Vive la Commune…) Per ordine di Mac-Mahon per tutta la notte piovvero su Belleville proiettili incendiari. Domenica 28 maggio, giorno del Signore, i versagliesi attaccarono l'ultimo ridotto formato da boulevard de Belleville, rue du Faubourg du Temple, rue des Trois Bornes e rue des Trois Couronnes. L'ultimo cannone federato tacque a mezzogiorno a rue de Belleville, nel pomeriggio l'ultimo colpo di fucile fu sparato dalla barricata di rue Ramponneau. La Comune era caduta, Mac-Mahon lanciò il messaggio: “Parigi è stata liberata! La battaglia è finita oggi; l'ordine, il lavoro, la sicurezza stanno per essere restaurati”, e Thiers telegrafò ai prefetti: “Il suolo è disseminato dei loro cadaveri. Questo spettacolo spaventoso servirà di lezione”. Non solo il suolo. Sulla Senna una lunga scia di sangue seguiva il filo dell'acqua e passava sotto il secondo arco delle Tuileries. Una scia di sangue che non s'interrompeva mai. Nella prigione della Roquette in quel solo giorno furono uccisi millenovecento federati, in quella di Mazas oltre quattrocento che vennero gettati in un pozzo del cimitero di Bercy. Colonne di prigionieri e di sospetti furono avviate a Versailles. Lungo il percorso, un generale li ispezionò. Fatti uscire dalle fila i più anziani, disse loro: “Voi avete visto il giugno 1848, perciò siete ancora più colpevoli degli altri!” e li fece fucilare sul posto. Caddero così ottantatré uomini e dodici donne. Ecco perché la Settimana di Sangue. Il massacro continuò nei giorni successivi alla caduta della Comune. Il 29 maggio capitolò il forte di Vincennes. Mentre nei giardini del Luxembourg e nella prigione della Roquette si continuava a fucilare, nella caserma Lobau le mitragliatrici uccisero altri tremila parigini: i cadaveri furono scaricati nella square Saint-Jacques, dove una parte venne sommariamente sepolta, un'altra parte bruciata e il resto prelevato dalle carrette funerarie. Al Père Lachaise i prigionieri furono condotti a gruppi di centinaia e allineati a ridosso di una lunga e profonda fossa scavata davanti al muro che aveva visto cadere gli ultimi difensori della Comune. Le mitragliatrici aprirono il fuoco e, morti o feriti, i federati rotolarono nella fossa e vennero ricoperti di calce viva. Non esiste un calcolo preciso delle vittime della repressione. Le cifre ufficiali del governo ne sottostimarono il numero a 17.000. Per Chastenet e Rougerie furono 20.000, per Lissagaray e Levêque 23.000, per Bourgin 25.000, per Pelletan e Kergentsev 30.000, per Zévaès 35.000. Di certo fu il massacro più sanguinoso della storia civile della Francia. La strage degli Ugonotti, nel 1572, nella notte estiva di San Bartolomeo (in orrore alla quale Voltaire, ogni 23 agosto della propria vita, era preso da violenta febbre psicosomatica), fece alcune migliaia di vittime; durante tutta la Rivoluzione Francese furono giustiziate a Parigi circa quattromila persone e in tutta la Francia non più di 17.000, Grande Terrore compreso, ad opera di Madame la Ghigliottina. Perché allora contro il popolo della Comune una reazione tanto barbara? Per provare a capire, per illustrare cosa fu – cosa è stata, cosa sarà sempre – la Comune di Parigi, cedo ora la parola. Stravolentieri. Marx (estratti da La Guerra Civile in Francia, giugno 1871) All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: “Vive la Commune!”. Che cos’è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi? “I proletari di Parigi,” diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, “in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari… Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo.” La Comune fu l’antitesi diretta dell’impero [il Secondo Impero, di Napoleone III, sconfitto dalla Prussia nella guerra franco-prussiana del luglio1870/maggio1871] Il grido di “repubblica sociale”, col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di febbraio, non esprimeva che una vaga aspirazione a una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe. La Comune fu la forma positiva di questa repubblica. Parigi, sede centrale del vecchio potere governativo e, nello stesso tempo, fortezza sociale della classe operaia francese, era sorta in armi contro il tentativo di Thiers e dei rurali di restaurare e perpetuare il vecchio potere governativo trasmesso loro dall’impero. Parigi poteva resistere solo perché, in conseguenza dell’assedio, si era liberata dell’esercito, e lo aveva sostituito con una Guardia nazionale, la cui massa era composta di operai. Questo fatto doveva, ora, essere trasformato in un’istituzione permanente. Il primo decreto della Comune, quindi, fu la soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo armato. La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l’agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune. Sbarazzarsi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione spirituale, il “potere dei preti”, sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari. E’ comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale con le quali possono avere una certa rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero sostrato. La Costituzione della Comune è stata presa a torto per un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli stati, come era stata sognata da Montesquieu e dai girondini, quella unità delle grandi nazioni, che se originariamente è stata realizzata con la forza politica, è ora diventata un potente fattore della produzione sociale. L’antagonismo tra la Comune e il potere statale è stato preso a torto per una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. Speciali circostanze storiche possono aver impedito in altri paesi lo sviluppo classico della forma borghese di governo che si è avuta in Francia e possono aver permesso, come in Inghilterra, di completare i grandi organi centrali dello stato con corrotti consigli parrocchiali, con consiglieri comunali trafficanti, feroci custodi della legge dei poveri nelle città e magistrati virtualmente ereditari nelle campagne. La Costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora assorbite dallo stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti. Con questo solo atto avrebbe iniziato la rigenerazione della Francia. La classe media francese delle provincie vide nella Comune un tentativo di restaurare il controllo che il suo ceto aveva avuto sul paese sotto Luigi Filippo, e che, sotto Luigi Napoleone, era stato soppiantato dal preteso sopravvento delle campagne sulle città. In realtà la Costituzione della Comune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro interessi. La esistenza stessa della Comune portava con sé come conseguenza naturale la libertà municipale locale, ma non più come un contrappeso al potere dello stato ormai diventato superfluo. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro. La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par dècret du peuple. Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese. Pienamente cosciente della sua missione storica e con l’eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere delle grossolane invettive dei signori della penna e dell’inchiostro, servitori dei signori senza qualificativi e della pedantesca protezione dei benevoli dottrinari borghesi, che diffondono i loro insipidi luoghi comuni e le loro ricette settarie col tono oracolare dell’infallibilità scientifica. Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione; quando per la prima volta semplici operai osarono infrangere il privilegio governativo dei “loro superiori naturali”, e, in mezzo a difficoltà senza esempio, compirono l’opera loro con modestia, con coscienza e con efficacia – e la compirono per salari il più alto dei quali era appena il quinto di ciò che, secondo un’alta autorità scientifica, è il minimo richiesto per il segretario di un consiglio scolastico in una metropoli – il vecchio mondo si contorse in convulsioni di rabbia alla vista della Bandiera Rossa, simbolo della Repubblica del Lavoro, sventolante sull’Hotel de Ville. Eppure, questa fu la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale, persino della grande maggioranza della classe media parigina – artigiani, commercianti, negozianti – eccettuati soltanto i ricchi capitalisti. La Comune li aveva salvati con un regolamento sagace del problema che è causa eterna di contrasti all’interno stesso della classe media, il conto del dare e avere. La Comune aveva perfettamente ragione di dire ai contadini che “la sua vittoria era la sola loro speranza”. Di tutte le menzogne escogitate da Versailles e riprese come un’eco dai gloriosi giornalisti europei penny-a-liner, una delle più colossali fu che i rurali rappresentassero i contadini francesi. Basta pensare all’amore del contadino francese per gli uomini a cui, dopo il 1815, aveva dovuto pagare il miliardo di indennità. Agli occhi del contadino francese la sola esistenza di un grande proprietario fondiario è di per se stessa una violazione delle sue conquiste del 1789. I borghesi, nel 1848, avevano imposto al suo piccolo pezzo di terra l’imposta addizionale di 45 centesimi per franco; ma allora lo avevano fatto in nome della rivoluzione, mentre ora avevano fomentato una guerra civile contro la rivoluzione, per far cadere sulle spalle dei contadini il peso principale dei cinque miliardi di indennità da pagarsi ai prussiani. La Comune, d’altra parte, dichiarò in uno dei suoi primi proclami che le spese della guerra dovevano essere pagate da quelli che ne erano stati i veri autori. La Comune avrebbe liberato il contadino dall’imposta del sangue; gli avrebbe dato un governo a buon mercato; avrebbe trasformato le odierne sanguisughe, il notaio, l’avvocato, l’usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti da lui e davanti a lui responsabili; lo avrebbe liberato dalla tirannide della garde champetre, del gendarme e del prefetto; avrebbe sostituito all’istupidimento ad opera dei preti l’istruzione illuminata del maestro elementare. Se la Comune era dunque la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e quindi il vero governo nazionale, era in pari tempo un governo internazionale in tutto il senso della parola, poiché era governo di operai e campione audace della emancipazione del lavoro. Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso alla Germania due provincie francesi, la Comune annetté alla Francia gli operai di tutto il mondo. E per dare chiaramente rilievo alla nuova èra della storia ch’essa era consapevole di iniziare, la Comune sotto gli occhi dei prussiani conquistatori da una parte, e dell’esercito bonapartista condotto da generali bonapartisti dall’altra, abbatté il simbolo colossale della gloria militare, la colonna Vendome. La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo. Tali furono l’abolizione del lavoro notturno dei panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai multe coi pretesti più diversi, procedimento nel quale l’imprenditore unisce nella sua persona le funzioni di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più ruba denaro. Altra misura di questo genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d’indennizzo, tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s’erano nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro. Le misure finanziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione, non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di Parigi, sotto la protezione di Haussmann, dalle grandi compagnie finanziarie e dai grandi appaltatori, la Comune avrebbe avuto titoli, per confiscarne le proprietà, incompatibilmente più validi di quelli che avesse Napoleone per confiscare le proprietà della famiglia d’Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi, che hanno tratto entrambi una buona parte delle loro tenuta dal saccheggio delle chiese, furono naturalmente molto scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più di 8000 franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici. In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici, individui di altro conio; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il movimento presente, ma conservano una influenza sul popolo per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per anno la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciata la fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo vennero a galla alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di ostacolo all’azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile: col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu concesso tempo. Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della Parigi meretrice del II impero! Parigi non fu più il ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dai latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex negrieri e loschi affaristi americani, degli ex proprietari di servi russi e dei boiardi valacchi. Non più cadaveri alla Morgue, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero, per la prima volta dopo i giorni del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure e senza nessun servizio di polizia. “Non sentiamo più parlare – diceva un membro della Comune – di assassinii, furti e aggressioni. Si direbbe davvero che la polizia abbia trascinato con sé a Versailles tutti i suoi amici conservatori”. Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e soprattutto della proprietà. Al posto loro ricomparvero alla superficie le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne dell’antichità. Parigi lavoratrice, pensatrice, combattente, insanguinata, raggiante nell’entusiasmo della sua iniziativa storica, quasi dimentica, nella incubazione di una nuova società, dei cannibali che erano alle sue porte! Di fronte a questo nuovo mondo di Parigi, il vecchio mondo di Versailles – questa Assemblea di iene di tutti i regimi defunti, legittimisti e orleanisti, avidi di nutrirsi del cadavere della nazione – con un codazzo di repubblicani antidiluviani, che sanzionavano con la loro presenza nell’Assemblea la rivolta dei negrieri, si rimettevano per il mantenimento della loro repubblica parlamentare alla vanità del senile ciarlatano che era alla loro testa, e facevano la caricatura del 1789 tenendo le loro riunioni spettrali nel Jeu de Paume. Eccola, questa Assemblea, la rappresentante di tutto ciò che in Francia era morto, puntellato e mantenuto con un sembiante di vita unicamente dalle spade dei generali di Luigi Bonaparte! Parigi, tutta la verità; Versailles, tutta la menzogna. Lenin In memoria della Comune (aprile 1911) Quarant’anni sono passati dalla proclamazione della Comune di Parigi. Con comizi e manifestazioni il proletariato francese ha commemorato, come d’uso, gli artefici della rivoluzione del 18 marzo 1871. Negli ultimi giorni di maggio, esso andrà nuovamente a deporre corone sulle tombe dei comunardi fucilati, vittime dell’orribile «settimana di maggio» e a giurare ancora una volta di combattere senza tregua fino al trionfo completo delle loro idee, fino alla completa realizzazione dell’opera che ci hanno affidata. Perché il proletariato, e non solo il proletariato francese, ma di tutto il mondo, onora negli artefici della Comune di Parigi i suoi precursori? Qual è l’eredità della Comune? La Comune nacque spontaneamente. Nessuno l’aveva preparata coscientemente e metodicamente. Una guerra disgraziata con la Germania, le sofferenze dell’assedio, la disoccupazione del proletariato, la rovina della piccola borghesia, l’indignazione delle masse contro le classi superiori e contro le autorità, che avevano dato prova di assoluta inettitudine, un fermento confuso nella classe operaia che malcontenta della propria situazione, aspirava a. un nuovo regime sociale, la composizione reazionaria dell’Assemblea nazionale, che suscitava timori per la sorte della Repubblica: tutti questi fattori e molti altri concorsero a spingere il popolo di Parigi alla rivoluzione del 18 marzo. Questa rivoluzione fece passare improvvisamente il potere nelle mani della guardia nazionale, della classe operaia e della piccola borghesia che si era unita agli operai. Fu un avvenimento senza precedenti nella storia. Fino allora, il potere era stato sempre generalmente nelle mani dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, cioè dei loro uomini di fiducia formanti il cosiddetto governo. Dopo la rivoluzione del 18 marzo, dopo la fuga da Parigi del governo del signor Thiers, delle sue truppe, della sua polizia e dei suoi funzionari, il popolo rimase padrone della situazione e il potere passò al proletariato. Ma, nella società attuale, il proletariato è economicamente asservito al capitale, non può dominare politicamente senza spezzare le catene che lo avvincono al capitale. Ecco perché il movimento della Comune doveva inevitabilmente assumere un colore socialista, tendere cioè all’abbattimento del dominio della borghesia, del dominio del capitale, e alla demolizione delle basi stesse del regime sociale dell’epoca. All’inizio, il movimento, fu estremamente eterogeneo e confuso. Vi aderirono anche i patrioti con la speranza che la Comune avrebbe ripreso la guerra contro i tedeschi e l’avrebbe condotta a buon fine. Il movimento era anche sostenuto dai piccoli commercianti minacciati da rovina se il pagamento delle cambiali e degli affitti non fosse stato prorogato (ciò che il governo aveva rifiutato di fare e che invece la Comune accordò). Infine, nei primi tempi, il movimento ebbe, in parte, la simpatia dei repubblicani borghesi i quali temevano che l’Assemblea nazionale reazionaria (i «rurali», i rozzi e brutali grandi proprietari fondiari) restaurasse la monarchia. Ma la funzione principale fu evidentemente assolta dagli operai (soprattutto dagli artigiani di Parigi), fra i quali, durante gli ultimi anni del secondo Impero, era stata svolta un’attiva propaganda socialista, e molti appartenevano anche all’Internazionale. Gli operai furono i soli a restare fino alla fine fedeli alla Comune. I repubblicani borghesi e i piccoli borghesi se ne staccarono presto; gli uni furono spaventati dal carattere proletario, rivoluzionario e socialista del movimento, gli altri si ritirarono quando videro il movimento destinato a una sicura disfatta. Soltanto i proletari francesi sostennero senza paura e senza stanchezza il loro governo Combatterono e morirono per la sua difesa, cioè per la causa dell’emancipazione della classe operaia, per un avvenire migliore di tutti i lavoratori. Abbandonata dai suoi alleati della vigilia e priva di qualsiasi appoggio, la Comune era destinata alla disfatta. Tutta la borghesia francese, tutti i grandi proprietari fondiari, tutti gli uomini della Borsa, tutti i fabbricanti, tutti i ladri grandi e piccoli, tutti gli sfruttatori, si unirono contro di essa. Questa coalizione borghese, sostenuta da Bismarck (che liberò 100.000 prigionieri di guerra francesi per sottomettere Parigi rivoluzionaria), riuscì a sollevare i contadini ignoranti e la piccola borghesia provinciale contro il proletariato di Parigi e a chiuderne la metà in un cerchio di ferro (l’altra metà era bloccata dall’armata tedesca). In qualche grande città della Francia (Marsiglia, Lione, Saint-Etienne, Digione, ecc.) gli operai tentarono anch’essi di prendere il potere, di proclamare la Comune e di correre in aiuto di Parigi, ma i loro tentativi fallirono rapidamente. E Parigi che, prima, aveva levato lo stendardo dell’insurrezione proletaria, ridotta alle sole sue forze, si trovò votata alla catastrofe inevitabile. Due condizioni, almeno, sono necessarie perché una rivoluzione sociale possa trionfare: il livello elevato delle forze produttive e la preparazione del proletariato. Nel 1871, queste due condizioni mancavano. Il capitalismo francese era ancora poco sviluppato, e la Francia era ancora un paese prevalentemente piccolo-borghese (di artigiani, contadini, piccoli commercianti, ecc.). D’altra parte, non esisteva un partito operaio, la classe operaia non era né preparata né lungamente addestrata e, nella sua massa, non aveva un’idea chiara dei suoi compiti e dei mezzi per assolverli. Non esistevano né una buona organizzazione politica del proletariato, né grandi sindacati, né associazioni cooperative… Ma, soprattutto, la Comune non ebbe il tempo, la libertà di orientarsi, e di dar principio alla realizzazione del suo programma. Non aveva ancora potuto mettersi all’opera, e già il governo che sedeva a Versailles, appoggiato da tutta la borghesia, apriva le ostilità contro Parigi. La Comune dovette, prima di tutto, pensare a difendersi. E fino ai suoi ultimi giorni, che vanno dal 21 al 28 maggio, essa non ebbe il tempo di pensare seriamente ad altro. Del resto, malgrado le condizioni cosi sfavorevoli, malgrado la brevità della sua esistenza, la Comune riuscì a adottare qualche misura che caratterizza sufficientemente il suo vero significato e i suoi scopi. Essa sostituì l’esercito permanente, strumento cieco delle classi dominanti, con l’armamento generale del popolo, proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato, soppresse il bilancio dei culti (cioè lo stipendio statale ai preti), diede all’istruzione, pubblica un carattere puramente laico, arrecando un grave, colpo ai gendarmi in sottana nera. Nel campo puramente sociale, essa poté far poco; ma questo poco dimostra con sufficiente chiarezza il suo carattere di governo del popolo, di governo degli operai. Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito; infine, la Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della produzione. Per accentuare il suo carattere realmente democratico e proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario normale degli operai e in nessun caso superare i 6000 franchi all’anno (meno di 200 rubli al mese). Tutte queste misure dimostrano abbastanza chiaramente che la Comune costituiva un pericolo mortale per il vecchio mondo fondato sull’asservimento e sullo sfruttamento. Perciò, finché la bandiera rossa del proletariato sventolava sul Palazzo comunale di Parigi, la borghesia non poteva dormire sonni tranquilli. E quando, infine, le forze governative organizzate riuscirono ad avere il sopravvento sulle forze male organizzate della rivoluzione, i generali bonapartisti, sconfitti dai tedeschi, ma valorosi contro i compatrioti vinti, questi Rennenkampf e Möller-Zakomelski francesi compirono una carneficina quale Parigi non aveva mai visto. Circa 30.000 parigini furono massacrati dalla soldataglia scatenata, circa 45.000 furono arrestati; di questi ultimi molti furono uccisi in seguito; a migliaia furono gettati in carcere e deportati. In complesso, Parigi perde circa 100.000 dei suoi figli, e fra essi i migliori operai di tutti i mestieri. La borghesia era soddisfatta. «Ora il socialismo è finito per molto tempo», diceva il suo capo, il mostriciattolo sanguinario Thiers, dopo il bagno di sangue che egli e i suoi generali avevano fatto subire al proletariato parigino. Ma i corvi borghesi gracchiavano a torto. Sei anni circa dopo lo schiacciamento della Comune, quando molti dei suoi combattenti gemevano ancora nella galera e nell’esilio, il movimento operaio rinasceva in Francia. La nuova generazione socialista, arricchita dall’esperienza dei suoi predecessori, e per nulla scoraggiata per la loro sconfitta, impugnava la bandiera caduta dalle mani dei combattenti della Comune e la portava avanti con mano ferma e coraggiosa al grido di «Evviva la rivoluzione sociale! Evviva la Comune!». Due-quattro anni più tardi il nuovo partito operaio e l’agitazione che esso scatenava nel paese obbligavano le classi dominanti a restituire la libertà ai comunardi rimasti nelle mani del governo. Il ricordo dei combattenti della Comune è venerato non solo dagli operai francesi, ma dal proletariato di tutti i paesi. Perché la Comune non combatté per una causa puramente locale o strettamente nazionale, ma per l’emancipazione di tutta l’umanità lavoratrice, di tutti i diseredati e di tutti gli offesi. Combattente avanzata della rivoluzione sociale, la Comune si è guadagnata le simpatie dovunque il proletariato soffre e combatte. Il quadro della sua vita e della sua morte, la visione del governo operaio che prese e conservò per oltre due mesi la capitale del mondo, lo spettacolo della lotta eroica del proletariato e delle sue sofferenze dopo la sconfitta, tutto questo ha rinvigorito il morale di milioni di operai, ha risvegliato le loro speranze, ha conquistato le loro simpatie al socialismo. Il rombo dei cannoni di Parigi ha svegliato dal sonno profondo gli strati sociali più arretrati del proletariato e ha dato ovunque nuovo impulso allo sviluppo della propaganda rivoluzionaria socialista. Ecco perché l’opera della Comune non è morta; essa rivive in ciascuno di noi. La causa della Comune è la causa della rivoluzione socialista, la causa dell’integrale emancipazione politica ed economica dei lavoratori, è la causa del proletariato mondiale. In questo senso essa è immortale. 1. 12 dicembre 1969: strage di piazza Fontana, 17 morti e 88 feriti
2. 16 settembre 1970: rapimento e morte di Mauro De Mauro, giornalista 3. 22 luglio 1970: strage di Gioia Tauro, il deragliamento del Treno del Sole Palermo-Torino, 6 morti e 139 feriti 4. 14 marzo 1972: morte di Giangiacomo Feltrinelli, editore e comunista 5. 31 maggio 1972: strage di Peteano, una macchina imbottita di T4, uccisi tre carabinieri, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni, e diversi feriti 6. 27 ottobre 1972: uccisione di Giovanni Spampinato, giornalista dell'Unità 7. 28 maggio 1974: strage di piazza della Loggia, 8 morti e 108 feriti 8. 4 agosto 1974: strage dell’Italicus, 12 morti 9. 2 novembre 1975: assassinio di Pier Paolo Pasolini 10. 8 giugno 1976: il giudice Francesco Coco 11. 10 luglio 1976: il giudice Vittorio Occorsio 12. 12 marzo 1977: Rocco Gatto, mugnaio calabrese iscritto al PCI, si ribellava al pizzo 13. 29 novembre 1977: Carlo Casalegno, giornalista 14. 16 marzo - 9 maggio 1978: rapimento di Aldo Moro e uccisione degli uomini della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi; uccisione di Moro 15. 18 marzo 1978: Fausto Tinelli e Iaio Iannucci, antifascisti 16. 9 maggio 1978: Peppino Impastato 17. 24 gennaio 1979: Guido Rossa, operaio di Genova, sindacalista e comunista 18. 12 luglio 1979: Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona 19. 21 luglio 1979: Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo 20. 25 settembre 1979: il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso 21. 6 gennaio 1980: Piersanti Mattarella 22. 12 febbraio 1980: Vittorio Bachelet, professore di diritto 23. 22 febbraio 1980: Valerio Verbano, antifascista 24. 19 marzo 1980: il criminologo Guido Galli 25. 28 maggio 1980: Walter Tobagi, giornalista 26. 23 giugno 1980: giudice Mario Amato 27. 2 agosto 1980: la strage di Bologna, la più feroce della storia italiana, 85 morti e 200 feriti 28. 30 aprile 1982: Pio La Torre, segretario del PCI in Sicilia, e il suo collaboratore Rosario Di Salvo 29. 3 settembre 1982: Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo 30. 13 luglio 1983: il giudice Rocco Chinnici, i carabinieri Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta, e Stefano Lisacchi, il portiere dello stabile in cui abitava il magistrato 31. 5 gennaio 1984: il giornalista e scrittore Giuseppe Fava 32. 23 dicembre 1984: strage sul Rapido 904 Napoli-Milano: 15 morti, più di 100 feriti 33. 27 marzo 1985: Ezio Tarantelli, economista 34. 2 aprile 1985: Barbara Rizzo in Asta, e i figli Giuseppe e Salvatore, gemelli di 6 anni, uccisi dallo scoppio dell'autobomba per il giudice Carlo Palermo, illeso 35. 28 luglio 1985: il commissario Beppe Montana 36. 6 agosto 1985: il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia 37. 23 settembre 1985: il giornalista Giancarlo Siani 38. 26 settembre 1988: Mauro Rostagno, giornalista e sociologo 39. 21 settembre 1990: il giovane giudice Rosario Livatino 40. 9 agosto 1991: Antonino Scopelliti, magistrato 41. 18 agosto 1991: Ndiaj Malik e Babou Chejkh, due operai senegalesi, e un terzo, Madiaw Diaw, ferito; motivazioni razziali, uno dei delitti della Uno Bianca 42. 29 agosto 1991: l'imprenditore Libero Grassi, impegnato in un’iniziativa contro il racket delle estorsioni 43. 23 maggio 1992: Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinari e Vito Schifani 44. 19 luglio 1992: Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina 45. 8 gennaio 1993: Beppe Alfano, giornalista del quotidiano La Sicilia 46. 27 maggio 1993: strage a Firenze in via dei Georgofili, presso il Museo degli Uffizi, 5 morti e 37 feriti; deceduti: il vigile urbano Fabrizio Nencioni, la moglie Angela, le figlie Nadia di 9 anni e Caterina di sei mesi e lo studente universitario Dario Capolicchio; inoltre tre dipinti sono perduti per sempre e 173 restano danneggiati, insieme a 42 busti e 16 statue 47. 27 luglio 1993: strage a Milano in via Palestro, presso la Villa Reale, provoca 5 morti e 12 feriti; deceduti: i vigili del fuoco Alessandro Ferrari, Carlo La Catena e Sergio Pasotto, il vigile urbano Stefano Picerno e l'extracomunitario Moussafir Driss; inoltre provoca danni ingenti al Padiglione d'Arte contemporanea. 48. 28 luglio 1993: esplodono a Roma due autobombe provocando 22 feriti: una in piazza San Giovanni in Laterano che causa gravi danni alla basilica e al palazzo del Vicariato e l’altra in via San Teodoro che distrugge il porticato della chiesa di San Giorgio al Velabro e provoca danni alle abitazioni vicine. 49. 15 settembre 1993: assassinio di don Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano a Brancaccio, Palermo 50. 19 marzo 1994: don Giuseppe Diana parroco anticamorra Nel frattempo, per sommissimi capi: il PCI non esiste più, la privatizzazione e la precarizzazione del lavoro sono cominciate e ben all’opera, l’opinione pubblica ha perso ogni fiducia nelle istituzioni largamente a causa delle medesime (dai gradi più alti a tutto il resto), non c’è più il sistema proporzionale alle elezioni, l’impero della TV commerciale si è insediato, la gente ha ampiamente perso la facoltà di ipotizzare un altro mondo possibile (tranne una sacca di resistenti, cui si penserà a Genova nel luglio del 2001). Alla fine di tutto, il 27 marzo 1994 Berlusconi vince le elezioni col nuovo partito Forza Italia, va al governo con la Lega Nord e Alleanza Nazionale. Mafie ed eversori non ammazzano più, non sistematicamente, non per acuire e blindare la forbice sociale: non serve più, da qui in avanti ci pensa il liberismo. Comincia un'altra storia d'Italia, questa in cui ci troviamo ancora. Un po' in ritardo, ma il Potere ci ha ascoltato (noi che conosciamo la Costituzione e ne chiediamo la pura e semplice applicazione): la Repubblica Italiana diventa imprenditrice, produttrice e distributrice, per creare e vendere mascherine! 20.000 pezzi al giorno al prezzo finale di 50 centesimi, finalmente!
Arcuri, a domanda ("ma questa è una intromissione dello Stato nella libertà di impresa e concorrenza?"), ha risposto testuale: "Tutte le libertà economiche sono sacre, tranne quella di arricchirsi a scapito della salute!" Benedettiddìo, ci voleva il Covid-19! Ora però una domanda ci nasce spontanea: solo le mascherine sono ciò che, in assenza di intervento del Potere della collettività e cioè in regime di impresa e concorrenza private perfetto, incide sulla salute della gente? E, altra domanda: una riflessione del genere deve esser fatta solo in periodi di straordinaria emergenza come questo o invece, proprio sotto l'egida della nostra bellissima Costituzione, può valere sempre? Se rispondiamo no e no (“no, non solo le mascherine fanno la salute dei cittadini”, e “no, il principio non vale solo in casi di pandemia ma sempre finché vige la Costituzione”), allora ecco la domanda derivante e conclusiva, quella che vi poniamo in una specie di esperimento ideale buono per un weekend di moderato ottimismo come questo: Quali sono, secondo voi, i cinque prodotti (merci, beni, servizi – purché indicati con precisione) che la Repubblica potrebbe, e dovrebbe, mettersi a creare e vendere a cittadini e residenti per evitare che essi prodotti, lasciati al gioco del profitto privato, rischino di non arrivare a tutti compromettendo così la salute pubblica? (Ci rendiamo conto che questo sottintende una definizione abbastanza condivisa di 'salute pubblica’, ma tale sforzo che si richiede a chi giocherà è forse il frutto più pregiato di tutto l'esperimento.) Enjoy, e buon weekend! Paolo e Valentina Se, come sta già emergendo in qualche realtà, bar, ristoranti, negozi, botteghe ed esercizi di fresca riapertura alzeranno i prezzi rispetto a prima del lockdown, con la scusa di aver perso dei soldi a saracinesche abbassate e di aver più spese ora per l'igiene, be' cascano male!
Primo, perché gli italiani hanno scoperto in due mesi di ristrettezze di poter fare a meno di tante cose, e certo non si faranno prendere per i fondelli proprio per un espresso, una camicia o una pettinata: una qual parsimonia obbligatoria è già diventata buona abitudine. E secondo perché, a parti invertite, quando cioè sono i lavoratori dipendenti privati o pubblici a passarsela male, il che succede senza bisogno di pandemie, e vanno in esubero o in cassa integrazione o sono precari o sottopagati, ebbene nessuno ha mai visto un bar, un ristorante, un negozio, una bottega o un esercizio calmierare i prezzi per aiutare consumatori a corto di quattrini! Stiano ben attenti, quindi, i commercianti, simpatici quanto si vuole, che è un attimo: a tirar troppo la corda resterà loro in mano solo un pugno di mosche. Solidali, ma tutti insieme nel Paese, sì. Coglioni a favore delle solite classi, no, basta! Oggi, 20 maggio, nel 1970, diventava legge della Repubblica (Legge n°300) lo Statuto dei Lavoratori – cinquant’anni fa esatti.
Quello – tutto quel periodo, di cui l'anno 1970 è quasi il centro esatto – fu il trionfo della nostra democrazia, una socialdemocrazia per certi versi; col grande partito della sinistra al massimo della militanza (oltre un milione e mezzo gli iscritti al PCI di metà Anni’ 70), con un tasso di affluenza al voto intorno al 90% fino alle Politiche del ’76, con una coscienza sindacale profonda e capillare (milioni e milioni di iscritti alla sola CGIL), con una partecipazione agli spazi di dibattito e di auto-organizzazione anche fuori dal perimetro parlamentare o più ortodosso (frutto questo del ’68, del movimento femminista, dell’evoluzione dell’estrema sinistra). E i risultati si vedevano, sulla vita reale della gente e del Paese: otto anni di istruzione gratuita e obbligatoria per tutti, con la creazione della Scuola Media unificata nella prima metà degli Anni ’60; la trasformazione in Enti Ospedalieri pubblici di tutti gli istituti del sistema sanitario, nel 1968, fino ad allora gestiti da soggetti di assistenza e beneficienza; il protagonismo studentesco, sempre nel ’68, e quello operaio nel ’69; lo Statuto dei Lavoratori, appunto, che molto deve al PSI di Nenni e Gino Giugni; la legge sul divorzio, su impulso primario dei Radicali; la riforma Basaglia sugli ospedali psichiatrici; la legge del ’71 per la tutela delle lavoratrici madri e per gli asili nido; la riforma del diritto di famiglia; quella del sistema carcerario; la democratizzazione di scuola e università coi decreti delegati; la legge sulle 150 ore per gli studenti-lavoratori; la depenalizzazione dell’obiezione di coscienza al servizio di leva; l’istituzione definitiva, nel ’78, del Sistema Sanitario Nazionale; la legge sull’aborto e i consultori femminili; le grandi vittorie popolari nei due referendum su aborto e divorzio; la conquista delle amministrazioni di tante metropoli da parte di comunisti e socialisti; la segreteria di Enrico Berlinguer, quella di Bruno Trentin alla FIOM; la crescita all’interno della Democrazia Cristiana della corrente di Aldo Moro; Pertini Capo dello Stato, Ingrao Presidente della Camera; la posizione egemonica nell’ambito della cultura, conseguita e mantenuta dall’intelligencija di sinistra con una produzione e diffusione di livello e raggio non più raggiunti da allora… A pensarci bene, era perfino ovvio che a qualcuno ai piani più alti del Gioco Grande – nazionale e trans-nazionale – tutto questo andasse per storto: “Va bene dargli la Repubblica, la democrazia formale, i soldi per decollare come mercato e per rifuggire dalle sirene anticapitaliste, ma questi qui – colpa di quella loro Costituzione troppo socialista e di quel loro modo di essere comunisti e sindacalizzati davvero, tutt’altro che macchiette mangiabambini e sfasciamacchine – stanno costruendo socialdemocrazia sul serio. Facciamo che basta così!” Questo, si saran detti nelle segrete stanze. Ed è iniziato il crollo. Ma è Storia, ormai – storia, anche, del depotenziamento della Legge n°300 stessa. E se n’è già parlato tanto e spesso, con rabbia e tristezza. Oggi, qui, un ricordo fausto: quella legge, quello Statuto, quella coscienza, quella forza, quelle conquiste, quella democrazia – mezzo secolo di GRAZIE! Nel 1791 il metro fu definito come 1/10.000.000 della distanza tra Polo Nord ed Equatore, lungo la superficie terrestre, calcolata sul Meridiano di Parigi.
Poi, nel 1889, fu ridefinito come la distanza tra due linee incise su una barra campione di Platino-Iridio conservata a Sèvres, a 0°C di temperatura, presso il Museo dei Pesi e delle Misure. Dopo, nel 1960, si cambiò ancora: il metro divenne la grandezza pari a 1.650.763,73 lunghezze d'onda nel vuoto della radiazione corrispondente alla transizione fra i livelli 2p10 e 5d5 dell'atomo di Kripton-86. Ma nel 1983 la XVII Conferenza Generale di Pesi e Misure decretò che il metro era la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in 1/299.792.458 di secondo. Però oggi, visto che dobbiamo uscire a tutti i costi dall'emergenza coronavirus che provoca il tracollo dell'economia, il metro si ridetermina così: è la distanza che permette a chiunque di entrare in un esercizio commerciale, comprare o consumare qualcosa, pagare e andarsene; un po' più lungo o un po' di meno, dipende da dove ci troviamo: l'importante è che dei soldi passino di mano! - Ma i virus? E tutte le raccomandazioni che ci avete fatto fino a ieri? E gli studi, le cautele scientifiche? - Si fottano! Il virus mica vota. E gli scienziati sapranno tante cose ma non cos'è il lobbysmo. E poi per fortuna la gente c'ha la memoria corta, cortissima: millimetrica! Perdona loro, perché non sanno quello che fanno. (Luca, 23.34) Spesso il perdono è il padre di un secondo delitto. (Escalo; Atto II, Scena I) - No no, lo sanno benissimo quello che fanno: giocano con la pelle nostra. Dìscee: - Un po' dde bbottegai l'âmo fatti fòri da la vita economica. Un po' dde nordisci l'âmo fatti fòri da la vita nazzionale. Un po' dde artisti fancazzisti l'âmo fatti fòri da la vita curturale. Un po' dde operai in esubbero l'âmo fatti fòri da la vita produttiva. Un po' dde inquinamento l'âmo fatto fòri dall'aria che sse respiramo. E un po' dde vecchi magnapenzione l'âmo fatti fòri propio.
Dìcoo: - Sì pperò, pe' ffa' 'sto scherzo, t'è ccostato un par de centinara de medisci e 'nfermieri che l'âmo fatti fòri pure quelli! Dìscee: - Vabbè, ma gnisuna riforma profonda è ssenza costi. Tu ddevi vede che i bbenefisci so' dde ppiù! Maggio è un mese un po' particolare. Un bel po' – di risonanze.
È il mese della corsa in rosa, tanto per dirne una: del Giro d'Italia; che infatti quel giornalismo dalle regole tutte sue proprie, regole di poetica, di epica e di retorica che gli si perdonano volentieri per amore, cioè il giornalismo della bicicletta, chiamava a volte la Sposa di maggio. Questo maggio 2020, poi, particolare come mai prima a memoria d’uomo, il Giro non si corre: una foratura generale, universale, lo impedisce – un chiodino a forma di corona, microscopico, ha bucato tutte le ruote. È il mese delle spose, comunque, ma pure del divorzio vittorioso al referendum; e delle rose, anche. E quelle, per fortuna, crescono e fioriscono con tutta la Natura – corona o non corona. Maggio è così, contraddittorio: la primavera in piena esplosione e verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte, e i mille papaveri rossi che comunque fan veglia dall'ombra dei fossi. Il mese del Piave mormorava calmo e placido, quel mese del 1915 in cui un'Italia contadina e proletaria viene gettata in guerra da un'altra Italia aristocratica e borghese; e però la canzone celeberrima fu scritta nel '18, dopo le controffensive sul Piave, appunto, che riscattavano Caporetto e porteranno dritti alla vittoria finale di Vittorio, appunto, Veneto. Canzone quindi che con un occhio piange, per l'inutile strage, ma l'altro ride perché non passa lo straniero. Il maggio di Nerina, che a radunanze, a feste / Tu non ti acconci più, tu più non movi... /...per te non torna primavera giammai, / non torna amore; di Silvia, che sedeva, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi... / ...e tu solevi / così menare il giorno. E Non è di maggio questa impura aria / che il buio giardino straniero... È il maggio di Aldo Moro, ovviamente, e di Peppino Impastato, di Falcone a Capaci. Di Karl Marx, nato il 5 due secoli fa e qualcosa. E sempre il 5, ovviamente, da due secoli meno qualcosa, è siccome immobile l'Ei fu. Il maggio della Comune di Parigi, sempiterna nella memoria delle masse del Mondo coscienti di sé come classi – tanto quanto fu breve come esperienza, incomparabile. Maggio è anche il 4, giorno, del 10, civico, di Downing Street: la prima volta di Thatcher, quarantun anni fa. Ed è Superga, ancora il 4 infame, settantun anni fa, quando morì il Grande Torino e ne nacque immortale un amore da parte di tutta l'Italia di qualunque bandiera. Mio padre, romanista infatti, eppure innamorato a vita di quell'Undici scolpito nella leggenda: BacigalupoBallarinMaroso... Mio padre che detestava la Lady di Ferro appena meno di quanto detestasse Reagan! Che stimava Moro, come lo stimano tutti i comunisti per bene; e come tutti si commuoveva per I cento passi, ogni volta, specie ai pugni chiusi finali. Che ci insegnava l'onore della legalità – anzi, ce lo mostrava semplicemente. Mio padre che visse bambino un poco a Vittorio Veneto, scampando da altri orrori di una seconda guerra carnefice finita poi di maggio, l'8, del '45. Mio padre che mangiava pane e ciclismo, col Giro d'Italia a fette prelibate e Coppi in cima. Mio padre e i suoi Manzoni e Leopardi, faccia a faccia col nostro De André; il suo Gramsci, col nostro Pasolini. E viceversa. Mio padre che non c'è più. Da un giorno di maggio, maledetto giovedì 31 di due anni fa. Maggio delle rose, maggio delle mamme. Mia madre – sposa di dicembre, però, e poi tutta la vita – mette sempre una rosa fresca dirimpetto a mio padre, cioè all'urna gradevole in legno chiaro a guisa di librone che ne contiene le ceneri tra gli altri suoi tanti libri. Mia madre: amore e coraggio. In questo maggio 2020 senza precedenti forse potrò riabbracciarla, con le mascherine beninteso, e le nostre facce rivolte una di qua una di là, trattenendo il respiro. E poi ci guarderemo, i nostri occhi a dirci che maggio è tornato – come sempre ritorna. E che tanto di lui non se n'è andato via, né mai se ne andrà. Si 'stu sciore torna a maggio / pur'a maggio io stonco ccà, Vinicio gliela dedicava cantando e sorridendo con mio fratello al pianoforte. E per niente male, devo dire; con un occhio che ora piange e l’altro ride. |