"Ma ha uno stipendio di dieci milioni. Deve essere promosso!"
Se qualcuno vi chiede che significa l'espressione 'scuola di classe' e quanta storia d'Italia ha occupato e occupa, se qualcuno vi biasima perché vi lamentate che in questo Paese non esiste la meritocrazia, se qualcuno fa spallucce quando ricordate che la società dei consumi e dello spettacolo è lo stadio più raffinato e implacabile del capitalismo, voi ditegli di rileggersi gli atti delle indagini su Suarez e il suo esame d'italiano all'Università per Stranieri di Perugia, finalizzato alla cittadinanza che gli serve per essere assunto dalla Juventus e guadagnare quanto è scritto lì nel virgolettato. Ditegli così, e di far mente locale a cosa invece deve patire qualunque altro 'straniero' attraversi per lavoro l'Italia, o provi ad entrarci per sopravvivere, o ci sia nato e cresciuto ma (purtroppo per lui o per lei, secondo la legge attuale) da genitori venuti al mondo altrove. Che vergogna. Che miseria. Che schifo.
0 Commenti
Quindi a conti fatti il Centrosinistra governa in Italia il solo arco macroregionale che va dalle rive adriatiche della Romagna, passa per la pianura padana in quota Emilia, sale poi sull'Appennino tosco-emiliano, da qui digrada a toccare il mar Tirreno e scende lungo la Toscana, di lì il Lazio e dopo la Campania, e quel punto rientra dall'Irpinia verso il Tavoliere e le Murge e da là è già Puglia, cioè di nuovo mar Adriatico e finanche lo Ionio nello sviluppo del tacco tra i due mari.
Tolte dunque queste cinque, che ri-elenco: Puglia, Campania, Lazio, Toscana ed Emilia Romagna, l'Italia delle Regioni è dominata dal Centrodestra oppure dalla Destra pura e semplice (oppure da autonomisti vari che certo di sinistra non sono). Questo, quando fino a quattro anni fa le Regioni di Destra o Centrodestra erano tre soltanto. E questo, quando il quadro sociale ed economico del Paese, nei suoi terribili fondamentali reali: occupazione, reddito, servizi, diritti, prospettive (non in quelli immaginari: l'asserita invasione dello straniero, la sbandierata impossibilità a trovar posto per tutti, la rancida leggenda secondo cui le difficoltà al ceto medio le crea il ceto povero), ebbene, quando tale quadro dovrebbe naturalmente spostare il consenso di massa da proposte politiche di destra o moderate a proposte di sinistra o radicali. E invece? Invece per leggere il dato oggettivo (che è irriducibile, consolidato, con tanta o poca affluenza, tanta o poca campagna elettorale, col governo nazionale e la maggioranza parlamentare ai reazionari o col governo nazionale e la maggioranza parlamentare ai progressisti), ebbene non si può che adottare o l'una o l'altra delle lenti interpretative che seguono: - la gente è impazzita e preferisce piuttosto votare a destra che non ottenere politiche salvavita di sinistra, - la gente non è impazzita ma non ha più idea di politiche salvavita di sinistra perché una Sinistra che gliele illustri non la trova più, da tempo, e quindi vota a destra perché la Destra è l'unica cosa che c'è ed occupa la comunicazione politica coi suddetti fondamentali immaginari. Il quadro economico e sociale in Italia peggiorerà ancora, semplicemente a causa del Covid e sue conseguenze; e lungamente, di privazione in privazione passerà la maggioranza della gente. La Destra, esistendo e governando quasi ovunque, continuerà a dar risposte sbagliate alle sacrosante domande delle persone, in un circolo vizioso dall'esito fatale. Ma la Sinistra? Ritroverà uno specchio in cui guardarsi? Scoprirà che è troppo tempo che il prefisso Centro- la snatura e la condanna alla sconfitta (tranne brevi e circoscritte vittorie), rendendola superflua? Farà qualcosa contro il cupio dissolvi suo proprio e della stessa anima del vario popolo che vive, lavora, studia, crea e ama sul territorio della Repubblica Italiana? Ad ogni appuntamento che perdiamo ci sembra sempre, e con terrore, che sia l'ultimo. E davvero prima o poi lo sarà; non possiamo permetterci di far sempre finta di no. Il Ventesimo è il secolo delle avanguardie, dello sperimentalismo, dell’anti-qualcosa, del post-tutto; quindi non c’è (stato) spazio per un classicismo, il secolo scorso.
Falso. Il classicismo del Ventesimo Secolo è lo sport. E questa verità balza agli occhi appena si riflette sugli aspetti essenziali del fenomeno chiamato “movimento sportivo internazionale”, sulla sua diffusione in tutti i continenti, la sua ininterrotta longevità, la sua organizzazione capillare, l’epica dei suoi grandi appuntamenti rituali, i suoi inesauribili miti popolari, la sua enorme influenza sui costumi di massa, l’incalcolabile portata economica complessiva delle sue iniziative, il potere dei suoi simboli (traducibili immediatamente in ogni cultura regionale, e tradotti e interpretati spessissimo anche dalla Cultura alta). La Grande Arte del Rinascimento, la Grande Musica del Sette-Ottocento, la Grande Letteratura Borghese, il Grande Teatro Elisabettiano, la Grande Architettura dell’Antica Grecia – sono stati classicismi, tutti, ciascuno sotto il proprio rispetto, coi propri natali in latitudine e longitudine diverse, ed entro un dato contesto socio-antropologico. Così lo Sport per il Novecento, e addirittura su scala planetaria. Esso è (stato) nientemeno che una riserva di senso, benedetta per un secolo che allo sguardo nostro di semi-posteri si offre come tanto bisognevole di senso – appunto. Ma il suo culmine classico sono state le Olimpiadi di Roma del 1960; e il compimento di quel culmine, la maratona del 10 settembre: sessanta anni fa oggi. Questa che segue è la mia fantasia su quell’acme. Buona lettura. NESSUNO SA DOVE Pareva perduta, ormai. Risucchiata nel vortice immenso del passaggio dell’ultimo automezzo. (Dopo quello, il traffico – già scarso, peraltro – si devierebbe altrove fino al termine della gara: proprio l’ultimo, quindi, che sfortuna.) E scompostamente rotolava fra le correnti artificiali di un’aria surriscaldata di anidridi. Ora più vicina al manto di nuovo asfalto, ora al paraurti lucido della Millecento del Comitato, ora quasi del tutto annichilita nel buio dei fori roteanti di una borchia laccata in bianco. Sembrava poco più che un vivace disegnino ripiegato, sballottato a caso dal vento e lì lì per finire la sua corsa sotto il ciglio del marciapiede, nel tombino. Perduta. E invece riacquistò il controllo, in un attimo decisivo: uno stallo d’inversione termica, forse, o per l’inutile debraiata dell’autista. Un solo istante. Ma poi un altro, e poi un altro, e un altro. Con quattro splendidi colpi d’ala uscì dall’uragano, frenò l’inerzia del trascinamento, si ribaltò in un assetto più gestibile e, scrollandosi, finalmente mosse in salvo. Circumnavigò, la piccola machaon, il filare di pini che di quel viale vasto e inondato dal sole pomeridiano affiancava la corsia diretta verso il centro di Roma, e scivolando e piroettando sulle dita di una brezza tiepida fra una coppia di panchine e la sommità di un’edicola ancora sigillata, dal calice cromato di un lampione si spinse fin sul balcone d’angolo che squadrava il terzo piano di un palazzo di sei, recentissimo e tenue d’intonaco verde e travertino. Là si fermò. A riposare i colori delle ali appuntite tra i primi fiori di una malva precoce, proprio davanti alla portafinestra di un soggiorno. Spalancata, vociante. - E no, eh?! E mica può essere che stai sempre incollato davanti a ‘sta televisione! Una aspetta il sabato apposta per uscire… Va bene tutto: le corse, le medaglie… Però qua non si fa altro da due settimane! …Ma hai visto fuori che giornata? Che aspettiamo, che va via il sole? Eh, a Bru’: me senti? - Ma non dicevi così l’altro giorno, però… Hai visto pure te quant’era bello! “Neanche pare vero”, hai detto… Stavamo tutti fuori dai balconi a strillare “BERRUTI!” …E poi, Rosse’: la storia della Rudolph, della gazzella… Te ce sei commossa, non di’ de no! - Ma guarda che sei proprio qualche cosa! A me mi fa piacere stare con te, che sei contento che vince un italiano… e festeggiamo e stappiamo una bottiglia… Ma a te non te basta mai! Senti, ho capito: te resta qua, io salgo su da Emma e esco co’ lei! - Emma… bona quell’altra! A forza de strilli e de capricci se l’è fatto scappare il giornalista, e te credo! Ma chi ce resiste co’ un’isterica così? - Zitto, ch’è tutto aperto e se sente – e nel dirlo, la donna arginò d’istinto la voce col palmo della mano – …Ma poi te che ne sai? Giornalista quello!? Solo i pettegolezzi gl’interessano, a Rubini: uno così mejo perderlo che trovarlo! Tra il lampadario a gocce e il piano d’onice del tavolino le parole rimbalzavano e si rincorrevano, finché il televisore non pretese l’attenzione della coppia. - Dài Rosse’, che manca poco al via… - E te pareva! Ma tanto è l’ultima, no? Quanto dura ‘sta corsa? - Un paio d’ore, quanto sei dorce! Alle sette e mezza è finita… E pensa che passano proprio qua sotto, sulla Colombo! …Guarda Rosse’, eccoli là: a piazza del Campidoglio, mo’ partono… Ecco, ora: PARTITI! “Sono partiti!” Il massiccio del Tabularium impediva alla fanciulla di vederlo direttamente, ma lo sparo dello starter poté sentirlo con chiarezza. E l’istante successivo, il caloroso brontolio dell’incitamento montava nei varchi stretti tra gli edifici capitolini fino a stemperarsi sulla distesa degli scavi. Il sole le avvolgeva le spalle, e Leda – i gomiti poggiati sulla ringhiera del terrazzino nell’ora preferita – vagolava intorno al dubbio di rincasare e saziare così un certo languorino a suon di biscotti dentellati e latte fresco. Rientrò, ma prese solo un bel grappolo di primizia. E tornò subito ad affacciarsi dal suo bel punto di osservazione. “Ecco che scendono per i Fori Imperiali… quanta gente!” E oltre la sagoma di San Luca e Martina scorgeva, tra due ali tinte di folla e fazzoletti, un drappello di uomini in canottiera che si allungava verso il Colosseo – saltellante su e giù di piccole teste. Socchiuse gli occhi, e la fila di atleti le si mutò in un bruco che avanzava trasmettendo al corpo segmentato un’oscillazione perenne: dalla testa al fondo, e viceversa. Li riaprì: i battistrada stavano già per eclissarsi dietro i ruderi di Massenzio, dove suo padre l’aveva accompagnata qualche giorno prima per mostrarle gli incontri di lotta libera sotto quelle volte gigantesche, e poi era partito per lavoro – come spesso accadeva. La ragazza restava allora con sua madre e un’altra signora che si occupava della casa, il prestigioso appartamento con la balconata rossa a tu per tu con le balze del Palatino. E pure la mamma, non è che Leda la incontrasse sovente. Un po’ perché era davvero indaffarata insieme ad amici e soci, stilisti di grido, e poi perché anche lei era così brava e matura (“per i suoi dodici anni”, illustrava l’ultima pagella) che i suoi si erano presto risolti a concederle tutta l’autonomia che mostrava di meritare. E che essi, soprattutto, di meritarsi erano convinti. Non dava molti pensieri, Leda. Ma non è che pensieri, non ne avesse. Giusto in quel momento stava covandone due, gemelli. “Questi sono i Giochi della speranza di tutto il mondo, l’ha detto pure il Papa buono. E della volontà. Poco prima che nascessi in questa città c’era la guerra, e dopo ancora la fame… anche se io non l’ho mai patita. E la paura, a lungo, di non farcela. Adesso quei giovani laggiù che corrono, e altri che gli battono le mani in festa… Gente da tutti i Paesi, qui: in pace! Da nazioni che sul mio atlante nemmeno ci stanno: il Kenya, il Ghana, l’Uganda… con le loro bandiere strane e bellissime. L’Africa, mi spiega papà, si sta muovendo… E con lei tutto quanto. E allora io voglio che il mondo cambi ancora in meglio, che danzi, che cominci a correre, a volare da farci girare la testa!” “E anche la mia vita, adesso è pronta per danzare e per volare. Questa cosa che mi capita, che è successa questo mese per la prima volta, sento che viene al momento giusto. Mi porta la speranza, e un po’ d’ansia – è normale – …ma dà una spinta in più alla mia buona volontà. E poi magari arriverà l’amore, l’amore da grandi… Che poi non so neanche che vuol dire. Ma lo scoprirò, scoprirò tutto!” Sussurrò quasi, all’acino d’oro scuro sul palmo della mano ferma. Poi l’uva fu inghiottita. Così il lungo bruco, dalla curva ampia della via dei Trionfi. I maratoneti volsero il passo leggero alle terme e alle antiche mura. “Ma quant’è che abbiamo superato Caracalla? E questo stradone dopo gli archi, che non finisce mai. La piantina col tracciato non ti serve più, quando sei qui. E nemmeno la tattica studiata con l’allenatore. Sulla strada ci stai da solo. Coi tuoi piedi e i tuoi polmoni. E un cronometro in testa che non ti fa lo sconto di un secondo. Un’altra salita. Lunga. Sposta in avanti il peso, e guarda altrove. Il marocchino, il centottantacinque, mi sta davanti: ha un bel passo, ma dopo lo riprendo. Quando saremo sul basolato, con le caviglie buone che mi ha regalato la mia terra. E’ una città strana, questa. Siamo usciti dalla zona dei vecchi monumenti e subito dopo si è aperta, come una campagna. Ma sempre questa pista d’asfalto, su cui ora mettono la zampa questi palazzoni nuovi. La gente in balcone e in finestra ci saluta. Bello. E laggiù, quegli altri templi bianchi. Ma moderni. Tirati su per pura vanità. Ero piccolo quando arrivarono da noi, quegli italiani, e pensavano di piegare un popolo. Ma ora sto qui, corro sulle loro strade nel giorno in cui le guarda il mondo. Prima dell’arrivo… pensa alla corsa, non all’arrivo! …prima dell’arrivo passerò sotto la stele di Axum, e se vorrà il cielo sarò primo. Primo per la mia gente, per il mio amore. Il pastore è diventato un soldato, il soldato diventa campione per l’Etiopia e per il suo imperatore! Ecco, stiamo tornando. Il sole è basso, il vento alle spalle. Chiedo ancora uno sforzo alle mie ossa, su questa via antica e stretta e ruvida. C’è qualcosa della mia terra, qui. Quel che c’è dovunque ci sia stato tanto nascere e morire. E nessuno sa perché. Quando stai bene puoi essere spazio, ma se stai male allora diventa tempo. Il marocchino ce l’ho a un passo, e tutti gli altri dietro. Distanti. Ora di nuovo la gente che ci incita, sul prato all’imbrunire qui accanto. E sotto l’acquedotto. Una faccia dietro l’altra, nella luce delle fiaccole: è come se li riconoscessi. Ecco, l’ho affiancato. Lui si appesantisce. Io sono lieve. Posso farcela. Parto ora.” Il bambino non voleva darsi per vinto. La sua esigua cisterna era ormai agli sgoccioli ma troppi fili di quella ragnatela tuttavia resistevano, tesi tra uno stecco di ginestra e il gradone d’accesso al mausoleo di Cecilia Metella. - Carle’, bello de nonno, hai fatto? Dài, che tra poco passano! Come un provetto giardiniere, o un ingegnere idraulico, diresse allora il suo piccolo annaffiatoio naturale sui nodi dei tiranti maggiori intuendo che la loro rovina avrebbe ultimato l’abbattimento. E in effetti si sciolsero tutte, le trame di seta, e lentamente precipitarono le une sulle altre fondendo e quasi evaporando con ciò che restava dell’ipnotico disegno di madreperla. Fatto. Adesso poteva richiudere i bottoncini dei suoi calzoni corti e tornare sulla strada già nel crepuscolo, sollevando bene i sandali per evitare l’ortica. L’argìope carnosa, scampata al diluvio, avrebbe con pazienza tessuto e costruito ancora, purché se n’andasse il gigantesco intruso. - Eccomi, eccomi… ce n’avevo tanta! Dalle Sette Chiese, dal Quarto Miglio, perfino dalle Capannelle si erano mossi in parecchi per partecipare a quella specie di veglia pagana. Avevano lasciato bici e lambrette sulle soglie dell’antica consolare, avevano aspettato duellando con gli acuti di Dallara e le chitarre dei Rock Boys che uscivano dalle radioline, e ora gustavano le evoluzioni di un tramonto cremisi con l’animo dolce sulle labbra e la sete di eroi ad incendiare gli occhi. L’anziano, per mano al nipote, si sporse in avanti per scrutare in fondo al rettilineo. - Nonno, che vuol dire maratona? - E’ un posto, un paese della Grecia. Devi sapere Carle’, che tanti anni fa ci fu una battaglia importantissima proprio a Maratona: gli antichi Greci contro i Persiani, che però avevano un esercito quasi imbattibile… - Come gli Americani? - Eh sì, però questi erano i cattivi. E insomma chi vinceva ‘sta battaglia vinceva la guerra, e per i Greci perdere voleva dire perdere tutto, diventare schiavi… Capirai! Infatti a combattere ci andarono tutti gli uomini validi, proprio tutti. Ad Atene ci restarono solo i vecchietti come me, i bambini come te e le donne. - Atene, la capitale della Grecia: questo lo so! - Bravo! Allora te dico solo che là in città se la facevano sotto dalla paura: se a Maratona vincevano i Persiani era proprio finita. Aspettavano tutti insieme in piazza, per farsi coraggio. Aspettavano, e quasi faceva buio… Dallo sguardo mite del nonno Carlo passò in rassegna i volti accesi intorno, alle faville dei tizzoni, all’arco più livido dell’orizzonte coi suoi primi scintillii di stelle. Dall’imbuto dell’Appia saliva intanto l’atteso clamore. - …A un certo punto, mentre chi pregava e chi piangeva, qualcuno dalle porte di Atene vide da lontano una figura: un giovane con l’armatura e tutto, che correva a perdifiato… Più s’avvicina e più capiscono chi è: è Filippide, uno dei mejo soldati!... La folla dei tifosi adesso si richiudeva sul selciato, perché tutti volevano assistere. E un attimo dopo si aprì di nuovo in un boato, per dare strada agli olimpionici. Carlo guardava, e intanto sentiva. - …Lo aveva mandato il generale, a Filippide, che aveva già combattuto tanto… Lo mandava a strillare a tutta la città col cuore in gola “Ateniesi, abbiamo vinto!” …E quelli so’ saltati tutti, pazzi di gioia! Te lo figuri, Carle’? …Però Filippide adesso stava per terra senza più fiato, perché con tutte le ferite si era fatto di corsa quarantadue chilometri, da Maratona alla capitale: mo’ il cuore non gli batteva più… E vide, il bambino taciturno, due uomini scuri e magri corrergli incontro. Il primo distanziava l’altro della lunghezza di un furgone, e aveva il numero undici sulla maglietta fradicia. Poi osservò il nonno, e gli parve stesse trattenendo due bei lucciconi. - E’ in onore di quel ragazzo eroe, che ogni quattro anni si fa questa corsa coi giovani di tutto il mondo! Eccoli, piccoletto mio… Salutalo, salutalo il tuo campione! Abebe Bikila li superò in un attimo e tre secondi dopo transitò anche Abdesselem, entrambi risucchiati ormai dall’occhio di Roma. Passando, l’etiope svelò i suoi piedi scalzi a Carletto. Che ad occhi chiusi ci disegnò sopra due alucce variopinte. Proprio accanto al palco del Comitato l’incalcolabile varietà delle minuzie volanti perforava il fascio latteo di una fotoelettrica militare, puntata sui rilievi dell’Arco di Costantino. Alla base della tribunetta e tutto intorno, fino alle rampe di Colle Oppio e di fronte fino al culmine della Via Sacra, il vasto spazio che circondava il cono del traguardo era altrettanto stipato di corpi, di braccia, di voci e suoni con timbri e accenti differenti, di cronometristi e stampa, autorità e uomini in divisa, vecchi campioni e nuovi atleti, turisti, venditori di bibite e panini, pataccari e creature dei rioni, cineprese e camionette, garzoni e fidanzate, chi aveva sentito la radio e quei pochi con la televisione, chi aveva incrociato la gara in moto, chi prima stava in finestra, qualche matto imprecante col governo, gatti coraggiosi, scrittrici, poeti, registi, attori e figuranti. Tutti convenuti là, ora, a celebrare il rito antichissimo della vittoria. - Ma chi corre non ci pensa, a questo. Montague lo disse al suo amico italiano, un gradino più in alto sul palco-ospiti e più giovane di lui di oltre trent'anni. - E a che pensa? - C’è un tipo, uno scrittore arrabbiato come i nostri inverni, che ha pubblicato una cosa sull’animo del maratoneta. Sillitoe, si chiama. Potrei tradurvelo, se il tuo CONI ne acquista i diritti… L’italiano guardò l’orologio: venti alle otto. - Ci siamo, l’altoparlante li dà all’ultimo chilometro! Lo conosci Bikila? - Il cognome credo sia Abebe… Sì, ho letto qualcosa. Non è giovanissimo, ma lo stesso può diventare un grande. - All’altezza dei tuoi eterni rivali, i finlandesi? - Paragoni difficili, amico mio. Certo, a Parigi corsi le siepi contro un campione puro… Ma con l’immenso Paavo Nurmi non ho mai gareggiato: lui vinse semplicemente tutto il resto che c’era da vincere! Paragoni difficili, e anche Parigi e Roma sono diverse. E pure avere ventitré anni, come allora, o cinquantanove. Ridacchiò in inglese. E il suo amico, Giorgio, si persuase con osservanza euclidea che per confrontare cose molto differenti o distanti intanto occorrerebbe accostarle, il che valutava non fosse sempre semplice, e poi sovrapporle; e gli sembrava anche ingiusto per quella, tra le due cose a confronto, che nell’operazione di traslazione e ribaltamento finisse magari sotto. Si distese anche lui in un sorriso arguto, e incontrò gli sguardi inconfondibili di nonni e nipoti, di coppie rappacificate, di una ragazza nutrice del decennio nuovo. E lontani, ormai vicinissimi, gli occhi neri di un africano disincarnato, nessuno sa come, e pronto per la Storia. Bikila tagliò il traguardo in un delirio di evviva, tra rombi di applausi e lampi di luce. Aubrey Montague finalmente scattò in piedi, col resto del pubblico, e tenendo il cronometro in alto sulla testa gridava scandendo: - Due ore, quindici minuti, sedici secondi: nuovo primato mondiale! E corre scalzo… Magnifico, magnifico! E il trionfatore, sostenuto da mille mani, galleggiava a caso tra grida e microfoni rotolando in correnti ascensionali di euforia rovente. Un abbraccio di ammirazione accoglieva pure Rhadi Abdesselem, argento dopo un mezzo minuto, planato sull’arrivo in carne ed ossa. A quell’ora le farfalle diurne, sazie del ristoro tra i fiori del quale sempre ci rallegriamo, avevano già scelto di celarsi alla vista umana e ai loro predatori. Nessuno sa dove. Quello dei mostri (due? quattro? cinque?) che ammazzano a calci in testa un ragazzo da solo che hanno già buttato per terra a pugni in faccia, perché aveva tentato di difendere un altro ragazzo solo dalla loro stessa aggressione. Ci hanno messo venti minuti a spaccargli con le scarpe sul cranio, sul viso e il corpo tutto quello che serve rompere per uccidere una persona; ma prima avevano spento i lampioni sulla scena della mattanza, perché i mostri sono abituati al buio infernale da cui provengono e che li abita.
Quello di chi là intorno non è intervenuto a tentare di impedirla, di chi si è fatto gli affari suoi come sempre, come l'hanno abituato a fare, di chi neppure di nascosto ha chiamato chi si deve chiamare nei casi in cui assisti alla violenza mostruosa che tortura una vita innocente e poi la stronca. Forse perché la faccia che veniva calpestata con metodo in quella penombra infernale era una faccia scura, da straniero, da forestiero, da diverso, da immigrato. E quello di chi poi, dopo, sempre dopo, adesso, e domani, finché ci sarà un titolo da occupare sul giornale, finché verrà letto da qualcuno, e poi meno, sempre meno, e dopo niente, di chi dice "punizione esemplare", "fine pena mai", "ci vorrebbe di peggio", "siamo noi la legge e l'ordine", "questo è un governo di mammole"; di chi prova, anche oggi, oggi soprattutto, a far dimenticare che quell'inferno è figlio di tempi costruiti ad arte, che quell'indifferenza codarda parla la stessa lingua con cui essi ogni giorno, da anni, avvelenano il Paese. Il motivo per cui purtroppo (purtroppissimo) forse neppure uno dei coglioni ieri in piazza a Roma (piazza Bocca della Verità: somma ingiuria!) si sarà preso il Covid-19 proprio per quell'irresponsabile assembramento senza protezioni, è molto semplice: le abissali teste di cazzo che si sono date lì appuntamento (disprezzando gli oltre 35.000 morti solo in Italia, i quasi 300.000 che si sono ammalati finora, il lavoro incredibile di qualche milione di operatori medici e paramedici e volontari dalla fine di febbraio a oggi, l'angoscia e le difficoltà oggettive di tutti e 60.000.000 di italiani e italiane quanti siamo e dei quasi otto miliardi di umani sulla Terra tutti alle prese con lo stesso problema, e le centinaia di miliardi di valore economico bruciato fino a adesso direttamente o indirettamente a causa della pandemia più brutta da cento anni a questa parte) ebbene sono mesi, anni, forse è tutta una vita, che non se li incula nessuno, e quindi hanno già scontato loro malgrado la quarantena di garanzia, proprio quella su cui cagano a parole.
Infatti, chi volete che frequenti simili sfigati, smisurati, inguaribili? Dove pensate che vadano a sbattere le corna nella vita civile, oridinaria, quotidiana? Stanno chiusi in casa, piuttosto, a nutrirsi delle loro stesse scuregge e a farsi le pippe sugli schermi di pc, ipad e smartphone vomitandosi gli uni sugli altri le puttanate più impensabili! Escono solo con la piena, come ieri pomeriggio a Roma, incontrandosi tutti, finalmente, galleggiando al sole come tanti stronzi. Certo, sono abnormemente stupidi, ignoranti e meschini, ma quella è un'altra cosa. Ecco perché purtroppo (purtroppissimo) da quella manifestazione di merda forse non ne verrà neppure un bel cluster sacrosanto! I personaggi pubblici che seguono training appositi per mentire spudoratamente quando parlano appunto in pubblico o dai canali di comunicazione di massa (cioè praticamente tutti i personaggi pubblici), seguono tali training per arrivare all'effetto desiderato (cioè il convincimento del pubblico che le loro bugie spudorate siano invece delle verità o quantomeno che siano delle opinioni in cui essi stessi credono fermissimamente, il che in realtà è falsissimo quasi sempre) utilizzando contemporaneamente sia il veicolo dell'ascolto sia quello della visione; ossia studiano (viene scientificamente insegnato loro: è praticamente l'unico impegno che gli si richiede) come simulare simultaneamente con la voce e ciò che dicono e con le espressioni del viso e le posture del corpo. Esattamente come chi recita professionalmente fa nell’atto di esercitare il proprio mestiere.
E funziona, visto che non solo nessuno di essi è stato ancora appeso a un lampione a causa di ciò che in realtà fanno e pensano alle spalle e ai danni del pubblico, ma sondaggi alla mano (e raccogliendo io opinioni comuni a caso sul punto) essi godono di credibilità, chi più chi meno, di presunta autorevolezza addirittura, chi più chi meno, e soprattutto di familiarità diffusa (cioè il pubblico crede di conoscerli per le persone che fan mostra di essere) che è la loro arma in assoluto più importante e letale. A differenza degli attori noti come tali, per cui il pubblico conserva l’idea di distinzione tra i ruoli che interpretano sulla scena e la loro natura esistenziale, sulla quale correttamente sospende il giudizio. Convincere il pubblico di come invece stanno le cose sovrasta le mie povere possibilità: contro ho l'intera scienza retorica, prosodica e prossemica, un apparato sterminato di risorse materiali, il tempo infinito che il pubblico dedica volente o nolente a farsi imbambolare, e la feroce determinazione dei personaggi pubblici a mantenere le proprie vantaggiosissime rendite di posizione. Eppoi mi sono un po' stufato di partire lancia in resta contro le pale dei mulini a vento. Sarà l'età: più triste di Quijote c'è solo Quijote vecchio. Però un consiglio posso ancora darlo. Quel training è pensato specificamente per gabbarvi se ascoltate e vedete insieme i personaggi all'opera. Allora provate a togliere la voce quando uno o una di loro parla, a guardarli solo aprire e chiudere la bocca e gesticolare con la faccia, le mani e il corpo; oppure a chiudere gli occhi, e a sentire solo quel che dicono senza vederli, provando cioè a mettere in fila le parole che vi arrivano come se dovessero avere un senso in sé (come quando conversate con una persona comune come voi e me). Secondo me così vi accorgerete di qualcosa. E sarà tardi, ma forse non ancora troppo. Non irrimediabilmente. "La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati."
1930, Quaderni dal carcere (Q3, §34, p.311) E il vecchio è morto. E' morto negli anni del Terrore post-11.IX, è morto in quelli della Grande Recessione post-2008, sta morendo di climate change e global warming, e sta ancora morendo di Covid-economy. Ma il nuovo non riesce a nascere, anzitutto nelle nostre teste. |