Negli anni (che ormai sono una dozzina) della “TREmpesta perfetta” sul sistema globale (stupido, mio, giochino di parole per sintetizzare che tre sono gli uragani abbattutisi sull’ecumène: la crisi finanziaria del 2008, gli effetti non più celabili del cambiamento climatico, la pandemia Covid-19), è successo e sta succedendo questo fatto strano: la maggior parte dell’opinione della fascia di popolazione più qualificata culturalmente e professionalmente si è spostata su posizioni che tradizionalmente appartengono alla sinistra politica (imprenditori e finanzieri che parlano di tassazione e solidarietà, scienziati dell’economia che dopo quaranta anni di liberismo riprendono in mano Keynes se non Marx addirittura, leader istituzionali che gareggiano in sensibilità ecologista, il capo mondiale dei cattolici che scrive come Guevara), mentre la maggior parte dell’opinione della massa (semplici elettori, semplici contribuenti, semplici spettatori o semplici consumatori, dipende da che lente usate per guardare il pubblico) si è spostata su posizioni che tradizionalmente appartengono alla destra (nazionalismo, sciovinismo, xenofobia, autoritarismo: tutte ricette ovviamente inutili se non dannose per affrontare anche uno solo dei tre uragani) facendo la fortuna di capipopolo pronti a intercettare correnti profonde di disagio, renderle semplici slogan e restituire il tutto in forma di politiche a suon di martellante pubblicità, pagata da chi ha il solo interesse di lucrare su ciò che si vende facile, la quale ha il potere di nascondere alla massa l’inutilità, anzi dannosità, delle stesse politiche per il suo proprio status.
Strano, vero? Ossia che i garantiti dell’upper-class, per bocca della miglior tecnocrazia (accademici, CEO, cancellieri e banchieri centrali), si preoccupino per le condizioni della sopravvivenza di tutti (anche se la loro classe, garantita appunto, non sarebbe certo la prima ad esser travolta da uno tsunami definitivo), e invece il proletariato (intendo insieme, per comodità, middle- e working-class) non solo non si curi dei destini globali (e dovrebbe esser la classe che “liberando sé stessa libera il mondo”) ma neppure egoisticamente del proprio futuro, posto che i primi a cadere per un ulteriore deterioramento del quadro planetario (o per Covid o per warming o per recessione) saranno proprio loro, i lavoratori, i piccoli risparmiatori, i proprietari leggeri. Perché? Io credo sia perché questi quarant’anni di liberismo sono stati altrettanti anni di desertificazione intellettuale, morale e spirituale ai danni specifici della stragrande maggioranza della gente (anzi retrodaterei di un decennio l’inizio del lavorìo deleterio sull’anima comune, il che spiega come fu possibile che la svolta conservatrice degli Anni ‘80 fosse accolta con convinzione dal pubblico: era già debitamente arato nella mente, pronta a un prolungato masochismo), mentre al contempo l’upper-class si guardava bene dal cibarsi dello stesso junk-food subculturale propinato al popolo (in sinergia con quello materiale, fast-alimentare, decollato proprio allora su scala planetaria) e continuava invece a nutrirsi bene e così a pascere i propri figli: letture, studi, pratiche, visioni, viaggi, maturazioni, progetti. Qualche buon film americano ogni tanto lo lascia trapelare: la scena classica in cui il produttore di ciarpame televisivo impedisce tassativamente ai suoi stessi ragazzi di sfiorarlo, e gli impone invece Dostoevskij, la NY Symphony Orchestra e la cena da Sam Wo, ma solo se avranno capito la caduta tendenziale del saggio di profitto! Be’, non era una boutade degli sceneggiatori: le cose sono andate più o meno in questo modo. In più, poiché l’equivalente contemporaneo dello sciocchezzaio generalista, necessario un tempo per irretire i cuori ma ormai buono giusto a far compagnia agli anziani, è l’autociarpame del web e dei social che il popolo dell'età giusta frequenta assiduamente, avremo la potente blindatura tra la crassa ignoranza di tutti questi uomini-massa e la loro convinzione soggettiva di sapere molto e capire tutto (quando tutto ciò che sanno e capiscono è all’interno di una bolla semantica, solipsistica o di clan, comunque fatta in serie); viceversa, gli aristoi (diciamo così), che conoscono il mezzo ed evitano di scambiarlo per il mondo reale (come i loro padri non credevano affatto ai media mainstream pur allestendoli), continuano a formarsi nel mondo e nello studio e ad arricchirsi anche con scambi e programmi nel reale. E il solco di incomunicabilità tra le classi si scava e si allarga sempre più; il che mi preoccupa, non essendo certo io un romantico interclassista, solo nella misura in cui la classe alta e inopinatamente progressista non può allo stato orientare l’altra, ultramaggioritaria, invece regressiva. Cosa che invece occorrerebbe proprio al conseguimento dei nostri obiettivi grande-politici. (Un attimo: sto parlando per medie, ovviamente. Ci sarà sicuramente l’esponente del vertice della piramide socioeconomica proverbialmente becero e reazionario, così come può starci e anzi c’è senz’altro un proletario o piccoloborghese illuminato e radicale come da copione. Ma le tendenze generali dicono l’altra verità.) E dunque ora abbiamo gli ex-cuccioli dell'élite, ormai vertice attivo essi stessi, che nei loro circoli, seminari e think-tank dichiarano schiettamente che se non si passa e di corsa dal turbocapitalismo sfrenato a un'economia razionale, pianificata, sostenibile e solidale, tutto verrà giù come un castello di carte nella corrente fra due (tre, nel caso storico) finestre aperte, e simmetricamente i figli e nipoti dell’emi-secolare mutazione antropologica (preconizzata lucidissimamente da Pasolini, non lo diremo mai abbastanza) che nel loro rumorosissimo cicaleccio reale e virtuale, e soprattutto per bocca di rappresentanti sulla cresta dell’onda un po’ dappertutto (la caduta di Trump non conduca a troppo ottimismo: è stato votato da quasi 80.000.000 di persone nonostante l’abbiano visto all’opera per quattro anni!), dicono sempre meno velatamente che se non si passa e di corsa dalla democrazia (almeno formale) e dallo stato (più o meno) di diritto a un sistema più spiccio di risoluzione dei conflitti e di difesa dei privilegi (ma di chi? non certo delle vaste platee sedotte da quelle sirene!) saremo sommersi da forestieri rubalavoro, da giovinastri fannulloni, da intellettualoidi disfattisti. Chi ha fallito? La sinistra, naturalmente; intendo: il ceto politico organizzato in partiti, quello del lavoro e delle professioni organizzato in sindacati e ordini, e quello mediatico e intellettuale organizzato o meno, qualificabili variamente come “democratici” o “progressisti” o “socialdemocratici” o “laburisti” o “socialisti” o “radicali” o “alternativi” o (perfino, le nicchie residue) “comunisti”, “di classe”, “conflittuali” e “antagonisti”, i quali tutti, congiuntamente e disgiuntamente, come entità collettive ovvero i cui singoli esponenti, intanto non hanno minimamente colto a suo tempo la portata della trasformazione culturale avviata di pari passo alla ristrutturazione neocapitalista, e dopo, in corso d’opera fino praticamente all’altro ieri, hanno creduto di poter controbattervi (o anche soltanto resistere) sposando il contesto come dato di fatto ineluttabile (“There Is No Alternative!” disse Thatcher, e tutti giù a ripeterlo per decenni) e limitandosi a intercettare il consenso (ma da ultimo anche soltanto la pura e semplice attenzione) della gente comune offrendo qualche programma palliativo rispetto alla guerra di classe dall’alto verso il basso ma nessuno slancio prospettico parente alla lontana della lotta di classe dal basso verso l’alto. Risultato: la gente ha voltato le spalle a questi ceti, non trovando un motivo per preferire le loro ricettine stinte dinanzi al disagio sociale incipiente, e ha introiettato le parole forti (e clamorosamente sbagliate, ma offerte alla perfezione) dei ceti politici e mediatici di destra tout court. Il che dimostra, ad abundantiam, che nessuno è immune dallo Zeitgeist, neppure le persone fisiche, in carne ed ossa, componenti la risorsa del ceto medio riflessivo le quali però, espostesi con sottovalutazione del pericolo e hybris colpevole al contagio pluridecennale della mutazione antropologica, hanno fatto proprie esse pure l’idea che tutto sommato era ed è come dice la voce stentorea e seducente del sistema: un altro mondo non è possibile. (Dovevate spegnere la televisione a suo tempo, compagni e amici, come faceva l’élite; e dovete uscire ora dai social, sempre come fanno loro. Vi si disse, accoratamente, e vi si dice… Ma invano.) Piccolissima consolazione: abbiamo perso tutti. Anche, cioè, quegli ex-cuccioli illuminati che ora invocano la pensabilità (almeno) di un altro mondo e (dopo) la sua progettazione e (magari) costruzione. E naturalmente anche tutta la gente alle prese con gli uragani della “trempesta perfetta”, senza difese idonee, ha perso. Stanno vincendo soltanto i capipopolo di cui sopra, quelli che hanno sfruttato il mix di disagio reale e inconsistenza mentale della stragrande maggioranza (bacino regalato loro da partiti, sindacati e intellettuali di sinistra), e con parole d’ordine quantomeno per nulla pertinenti alle emergenze storiche e inoltre di una grettezza che l’Occidente (diciamo) aveva quasi dimenticato, hanno trovato un mestiere d’oro per il presente e (temo) l’avvenire a breve e medio termine. Condurranno al disastro il sistema che pure li ricomprende? Forse, ma si tratta perlopiù di psicologie da avventurieri: si pongono un solo problema alla volta, e si prendono una soddisfazione al giorno. Arriva l’inevitabile domanda, rivolta alle persone di retto pensiero e buona volontà della mia classe (e dei ceti politici/sindacali/professionali/culturali/mediatici di riferimento): cosa facciamo? Rispondo: piantiamo alberi. Mezza paginetta di spiegazione, vorrete concedermela. Nel 1722, il 5 aprile (domenica di Pasqua), Jacob Roggeveen, olandese (zelandese, all’epoca), prima avvista, poi accosta, infine sbarca su un’isola remota nel Pacifico, disabitata di uomini e animali, brulla e arida come una patata con la buccia, e ricca solo dei colossali manufatti in pietra che dopo chiameremo ‘Moai’. Il motivo di tutto quel deserto, scopriremo in seguito, è che gli abitatori dell’isola (che intanto si è presa il titolo ‘di Pasqua’ per il giorno della sua ri-scoperta) sono morti letteralmente di fame per aver essi stessi distrutto l’ecosistema locale. Sradicarono l’ultimo albero per farne strumento di trazione per l’ultimo idolo in pietra, che doveva servire (atroce paradosso) proprio a scongiurare il disastro ambientale. Ora fate conto che gli animi, le intelligenze degli uomini e delle donne appartenenti a middle- e working-class degli ultimi decenni siano gli alberi dell’Isola di Pasqua. Cosa è successo sulla nostra isoletta (che è il Mondo intero, in metafora; meglio: l’ecumène raggiunto man mano dal processo storico della globalizzazione dei flussi di merci, servizi e significati, e da essa uniformato)? Che l’upper-class, ben prima della resipiscenza virtuosa della fase attuale, ha intenzionalmente sradicato volontà e pensiero (perfino quelli basilari legati all’istinto di sopravvivenza) dalle masse perché così diventassero un’unica sterminata platea di spettatori, consumatori, contribuenti ed elettori (meno imprescindibile, questo) della grande ristrutturazione turbocapitalista e neoliberista avviata quarant’anni fa; e non si è fermata in quest’opera di disboscamento finché l’ultimo albero resistente (volendo puntare il dito sul calendario direi nel 2001, con l’effetto scenografico dell’11.IX congiunto alla mattanza contro il Global Forum di Genova) non è caduto a terra, lasciando la superficie di cervelli e cuori della gente brulla e arida sì ma sterilizzata dal rischio di altre azioni di disturbo al mainstream o anche solo distrazioni dai compiti assegnati a ciascuno dal sistema "senza alternative". Poi, però, ecco la grande crisi finanziaria ed economica del 2008; ecco le conseguenze sempre più visibili del climate change e del global warming; ed ecco, il più recente, il pozzo della pandemia con la recessione senza precedenti che provoca e provocherà ancora. Ed ecco allora che l’élite, fiutando dall’orizzonte eventi terrificanti per i suoi stessi affari e sparigliando le tradizionali collocazioni ideologiche, si rende conto che ha bisogno di alberi, almeno di qualche arbusto, da cui ripartire per far diventare movimento di massa nuove possibili prospettive salva-Mondo (giacché senza la massa in moto nulla si trasforma dello stato di cose presente, com’è arcinoto a chi conosce davvero il significato della parola “politica”); e però: non c’è più neppure un cespuglio! Proprio come sull’Isola di Pasqua quando vi sbarcò quell’esploratore. Una decina di anni fa, dopo il primo scossone, nel corso del primo e ancora solitario uragano, si sarebbe dovuto far qualcosa perché tornasse l’erba, per cominciare, sul terreno; ossia: far qualcosa affinché nel senso comune di centinaia di milioni di persone al Mondo si riaffacciassero sintomi di intelligenza e di umanità, in controtendenza rispetto all’andazzo dei passati quarant’anni, tramite (che so?) l’ascesa come mode e symbol, orientata da testimonial e campagne mirate, di idee quali la condivisione e la cooperazione (anziché l’individualismo e l’arrivismo), di emozioni come l’empatia e la sollecitudine (anziché l’egoismo e l’apatia), di pratiche quali la rivendicazione e l’organizzazione (anziché il disinteresse e l’isolamento), di sogni come un futuro diverso e una vita nuova (anziché l’incubo del ristagno eterno), così che oggi dopo un decennio di lavorìo (di segno opposto, quindi, a quello del riflusso e disimpegno di mezzo secolo fa) la maggioranza avesse buon gioco nel condurre un veridico e severo raffronto tra le cose come stanno, le proprie aspirazioni e le bubbole avvelenate dei neo-leader populisti, sovranisti e razzisti, e a valle di esso iniziare a muovere l’immenso ingranaggio che è l'ecumène in direzione contraria rispetto al ciglio del burrone che ci sta ora davanti. Non è stato fatto, o solamente da ieri: son stati sprecati dieci anni. Ad oggi abbiamo sì le bellissime insorgenze collettive (a mero titolo di esempio, non esaustivo) dei Fridays for Future, del MeToo e di Black Lives Matter, ma per quante anime radunino queste piattaforme di consapevolezza e attivismo il grosso della gente (parliamo di miliardi di individui) è ancora in piena paralisi; o meglio, si muove per inerzia del moto (diciamo) rotatorio che fu impresso mezzo secolo fa a tutta la realtà vischiosa che è la Specie Umana, e che per essere invertito completamente richiede lo sforzo e il tempo espressi dalle equazioni di Navier-Stokes nella dottrina fluidodinamica. Nel frattempo (per questo lo dicevo) possiamo solo continuare a piantar semi, sparuti ancora, e ad innaffiare il terreno da cui germoglieranno (si spera, con tanta fortuna). Semi di idee teoriche e di organizzazioni pratiche, di emozioni vissute e di sogni non rinunciatari. Non invento assolutamente nulla, peraltro: "Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza", ci comandava Gramsci in anni tempestosi all'incirca quanto questi; e non lo ripeteremo mai abbastanza. E se bisogna percorrere un pezzo di strada coi rampolli ravveduti dell’upper-class (visto che si sono forzati a capire il da farsi, non certo perché siano diventati persone perbene), ebbene lo si faccia ma senza cedere un centimetro sugli obiettivi cui tendere: tutto il socialismo possibile a regime vigente (cioè senza rivoluzioni cruente), tutto l'ambientalismo, tutto l'umanesimo possibili nelle condizioni date (cioè senza azzerare lo sviluppo moderno e contemporaneo, ma decrescerlo governandolo); altrimenti faremmo come quelle sinistre stinte degli Anni ’90 e 2000 che abdicarono del tutto al proprio ruolo e ora, a cavalcioni della vittoria di Biden (che tanto deve alla generosità politica della sinistra di classe americana), provano a rialzar la cresta del loro imperturbabile moderatismo. E a proposito: liberarsi occorre al più presto degli ir-responsabili, diretti o epigoni, di quelle stagioni fallimentari prima che facciano altri danni, siano pure protetti dalle sigle del nostro cuore (“progressisti”, “socialdemocratici”, “laburisti”, “radicali”, “antagonisti” o “comunisti”), perché non dirò con Brecht che "I nemici marciano alla nostra testa" ma sicuro come Nanni Moretti in una piazza di Roma: “Con gente così alla guida, non vinceremo mai” (era il 2002, e infatti). Però i tre uragani imperversano, non abbiamo tanto tempo ancora. Dovesse fallire anche questa manovra estrema, osservatori alieni o del futuro dedurranno che anche noi, come gli abitanti dell’isola derelitta, decretammo l’autoestinzione rovinando per sempre un ecosistema compatibile con la sopravvivenza umana e di tante altre specie, e scannandoci tra noi con tirannie issate su dal gorgo della Storia e con guerre sempre più globali e mortifere; tutto per seguire le malevole teorie di arruffapopolo famelici e pazzi, lasciati padroni della scena. Ecco qui un semino. Buon inverno. Io sono iscritto individuale al Partito della Sinistra Europea (SE) dal 2016. Iscritto individuale vuol dire che non sono iscritto a SE in quanto già membro di un partito nazionale che ne fa parte (in Italia Rifondazione soltanto, della piccola nebulosa di sigle d'area: PCI, Potere al Popolo, PC, PCdL...), ma iscritto direttamente a SE come singolo (proprio perché non membro di alcun partito italiano).
Altri partiti nazionali afferenti a SE, che hanno eletto europarlamentari in carica, sono: die Linke (5), Syriza (6), Izquierda Unida (5), più qualche altra sigla dell'Europa centro-orientale con un eletto ciascuno. L'Italia non ha portato alcun europarlamentare nel gruppetto, in questa Legislatura (la scorsa, tre; con varie vicissitudini di appartenenza/fuga dai ranghi): è evidente un limite di appeal dei nostri partiti di sinistra radicale nella presente fase storica, e assai critica per tutti ma in particolare per la classe di riferimento. SE, coi suoi 20 europarlamentari per il 2019/2024, è parte del gruppo GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea / Sinistra Verde Nordica) insieme ad altre componenti: Ora il Popolo (con Podemos, Bloco de Esquerda, la France Insoumise e tre sigle da Danimarca, Finlandia e Svezia: in tutto 14 eurodeputati), Animal Politics (con tre sigle animaliste, una tedesca, una olandese e una portoghese: due eurodeputati in tutto), e Alleanza della Sinistra Verde Nordica (con un solo eurodeputato). Poi ci sono alcuni indipendenti di cui non so ad oggi il percorso nell'assemblea. Sono insomma una quarantina gli eletti in carica, per il GUE/NGL: il 5.6% dell'Europarlamento. Il mio partito ne conta circa la metà: il 2.8% sul totale. (La fusione in Unidas Podemos tra Podemos e IU, sopravvenuta al voto europeo, non cambia la sostanza del ragionamento espresso.) Siamo una forza molto piccola. Con una bella storia alle spalle, ma ora scarse risorse e un'organizzazione non molto solida; per esempio nessuno sa con certezza quanti siano gli iscritti a SE, perché non è stata approntata una banca dati con i nominativi degli iscritti individuali in tutta Europa. Neppure quanti siamo noi individuali italiani, è dato ad oggi sapere! In compenso abbiamo, mi pare, tutte le rigidità burocratiche di una forza politica importante e influente dotata di un'organizzazione articolata e possente; per esempio, sono molti mesi che un gruppo di volenterosi iscritti individuali italiani sta cercando di far giungere alle alte cariche del partito la proposta che tutti gli iscritti come noi, non avendo un partito nazionale che porti la propria voce in sede SE, possano organizzarsi formalmente in qualche modo e cioè esistere e contribuire (tessera a parte) alla politica teorica e pratica del partito, ma questo tema non è stato ancora esaminato seriamente da dette cariche (nonostante il vicepresidente di SE sia italiano). Mesi! Di riunioni tra i suddetti compagni, di documenti stilati, di mail inviate ai dirigenti SE, di loro inviti a parlarne in altre riunioni ancora (salvo poi scoprire che coi dirigenti si parla sempre d'altro) e di autocensura dei volenterosi stessi che si guardano bene (per somma disciplina congenita, evidentemente) dal lamentarsi dell'impasse fuori dal ristretto cerchio dei direttamente coinvolti (non sia mai che la stampa malevola poi spinga lo scoop "SE balla sul vulcano degli iscritti individuali! Cosa succederà ora?") Sembrerebbe, data tutta questa cautela nel modificare gli assetti attuali (che, ripeto, sono quantomeno confusi), che parliamo di cose che possano mettere in pericolo il governo del continente, quando invece non è che l'istanza, la nostra, di una parte marginale di una forza marginale entro un gruppo marginale dell'Europarlamento: istanza con la quale si vorrebbe solo partecipare di più e meglio (in un momento in cui la partecipazione certo non rischia l'affollamento delle ore di punta) e magari, se accolta, praticata e resa ben visibile, richiamare attenzione ed emulazione di altri cittadini che potrebbero spendersi per una sinistra di scala europea (in una fase in cui, come visto dai numeri, ciò darebbe linfa non certo superflua) se solo sapessero come e dove! Insomma, sto dicendo, è questione, tutta intera, che qualunque realtà organizzata privata o pubblica, a qualsiasi mission votata, avrebbe già affrontato e risolto nell'arco di una settimana: o sì o no, chiaramente; specie, ribadisco, per il peso attuale sia dell'organizzazione in oggetto sia dei proponenti la questione. Io a questo punto non so più che pensare. Dal gruppetto dei volenterosi compagni mi sono estraniato da tempo: mi frustra tanto il muro di gomma in cui incappano regolarmente quanto la loro diligenza infinita nell'accettarlo e tentare sempre strade nuove, e compunte, per farsi dire ancora di no (ossia: “aspettate”). Allora, per non saper fare altro, ho deciso di scrivere questo promemoria sul mio blog. E di renderlo pubblico, come azione squisitamente "indisciplinata" (i compagni non sono a conoscenza di nulla), in forma di lettera aperta al vicepresidente di cui sopra che poi è Paolo Ferrero, già segretario di Rifondazione Comunista. Non servirà a niente, neppure la leggerà tanto è lunga e pedante... Ma io seduto per terra ai piedi di un muro di gomma non saprei starci neanche se stessimo giocandoci un potere reale sulle sorti dei lavoratori e dei cittadini, figurarsi stando così le cose! A te, compagno Ferrero. Paolo Andreozzi, di Roma Iscritto individuale al Partito della Sinistra Europea Tessera del 20.10.2016 (il numero non si sa) Non so se avete contezza dell'operazione di Repubblica sul centenario di Livorno (21.I. 1921).
Dagli editoriali di Ezio Mauro già on line ai commenti vari, quando mancano ancora due mesi, sembra quasi che la nascita del Partito Comunista d’Italia, poi Italiano (partito che diventerà l'ossatura stessa della Resistenza al e della Liberazione dal nazifascismo, che scriverà gli articoli più avanzati della nostra Costituzione, che sarà il più grande partito comunista d'Occidente, spina nel fianco della politica imperialista USA e perfino della stagnazione URSS, da cui prenderà le distanze ben prima della svolta di Gorbacev, un’organizzazione di massa motore delle più importanti riforme civili, sociali, economiche e giuridiche in Italia, intransigente contro tanto tutte le mafie col colletto di ogni colore quanto tutte le deviazioni sanguinarie di frange sedicenti rivoluzionarie, incubatrice di generazioni di operatori della cultura alta e fattore di educazione, emancipazione e autopromozione per milioni di lavoratrici e lavoratori relegati altrimenti, dal sistema e dai suoi rappresentanti politici di destra e di centro, al ruolo di puro strumento produttivo e macchina dei consumi), ebbene che sia intanto solo una mera faccenda di scissionisti compulsivi e inoltre che la colpa fosse tutta di chi da quel teatro livornese uscì cantando L’Internazionale e non (come semmai sarebbe in ogni separazione) anche di chi restava dentro senza aver saputo trovare sintesi unitarie all’altezza della fase in Italia, in Europa e nel Mondo. E anzi l’additano, quell’evento, a madre di tutte le sventure della sinistra in Italia il cui popolo, sottintendono quelle tesi, non essendo (per ipotesi, invece) venuto il PCI alla luce ma col solo Partito Socialista (quello pieno di interventisti alla Prima, di interclassisti, di arrampicatori sociali già allora, e con più di un proto-fascista nei propri ranghi – oltre al celeberrimo e funestissimo ex-direttore dell’Avanti), rimasto non scisso e intatto avrebbe miracolosamente avuto la forza di risparmiare all’Italia la dittatura e la Guerra Seconda, forse creando addirittura le basi per una socialdemocrazia scandinava ante-litteram benché assai extra-latitudinem! Be', mi spiace per Repubblica, ma di una tal interpretazione posso soltanto dire che È UNA CAGATA PAZZESCA!!! La quale però, purtroppo, preannuncia che ne vedremo e sentiremo delle belle per due mesi ancora, sull’argomento; tesi e tesicchie che faranno arrossire qualunque seria metodica storiografica e politologica, non essendovi tra l’altro alcuna voce udibile in Italia, al momento, che abbia interesse a spendere una parola di verità per dire come le cose andarono e perché (e sono io il primo a riconoscere macroscopici errori del PCI nel corso della sua storia settantennale; ne menziono solo cinque in ordine di tempo: l’amnistia togliattiana, il ’56 per intero, aver ostracizzato Pasolini, l’espulsione del gruppo il manifesto, la subalternità ai Radicali nella sacrosanta battaglia per il divorzio). Ma, come si dice, “Cesare deve morire”. Giacché il Partito Comunista Italiano, pronunciata ormai due generazioni fa, non è mai morto abbastanza. Sei italian*, però mica per scelta; sei nat* nella seconda metà del XX secolo, ma tuo malgrado, e coprirai una gittata più o meno lunga del XXI, speriamo serena; e appartieni a ciò che si chiama variamente il ceto medio, che è variegato di suo ma ci siamo capiti, però anche questo per sorte.
E se invece avessi potuto decidere? Quale popolo? Quale epoca? Quale classe? Insomma: DOVE, QUANDO e COME, secondo te, saresti più TE STESS* di quanto non ti abbia modellato di fatto il puro caso? La mia risposta Risposta scartata n°3 o “la critica del giudizio” Sono un fiorentino, nato nel 1485. Figlio di banchiere, banchiere medio/piccolo (non certo gli Strozzi o i Bardi, insomma, e manco i Benci) per non dover entrare nelle grosse contese economico-politiche, e figlio cadetto così non mi tocca pensare agli affari in prima persona affianco al babbo e peggio ancora dopo, quando non ci sarà più. Mi piace l’arte e posso spendere un po’ per godermela e anche stimolarla, e intanto passeggio per i magnifici lasciti abbastanza recenti di Brunelleschi, Ghiberti, Gentile da Fabriano, il Rossellino, Leon Battista Alberti, Masaccio e Masolino, Donatello, Beato Angelico, Gozzoli, Andrea del Castagno, Paolo Uccello, Piero di Cosimo e Signorelli, di Cosimo Rosselli basta che salga a Fiesole e di fra Lippi appena a Prato, e al cospetto dei sacri antichi: Giotto, Cimabue, Duccio, Arnolfo, l'Orcagna e i suoi fratelli, e il Gaddi, il Daddi, Giusto de' Menabuoi, Ambrogio Lorenzetti. Che posto, Firenze! Supero indenne a fine secolo la guerra di Carlo VIII che passa in città e poi la caotica fase del Savonarola. I Medici c’erano prima, ci sono adesso, e ci saranno ancora. Vengo a sapere ovviamente dei viaggi e delle scoperte oltreoceaniche, ma mi eccitano poco. Preferisco entrare e curiosare nelle botteghe del Verrocchio, Pollaiolo, Botticelli, il Ghirlandaio, il Perugino, i Della Robbia e Filippino Lippi, e nei cantieri aperti di Giuliano da Sangallo e del Filarete. A casa Portinari ammiro un quadro che viene dalle lontane Fiandre, di Hugo van der Goes, dai Chigi un Cranach, e mio padre mi dice di meraviglie altrettante che ha incontrato nei suoi affari al settentrione: nomi come Van Eyck, Van der Weyden, Memling, Bosch, Durer, Grunewald, Fouquet, tele esatte come miniature, dipinte con una lucentezza sconosciuta. Purtroppo nulla in città di Antonello da Messina, di Mantegna e dei mirabili veneziani di oggi, o dei vecchi pisani e di altri grandi senesi del secolo scorso, e di Piero della Francesca solo una collaborazione in Sant'Egidio: non si può aver proprio tutto! Ma nel 1501 l'evento per tutta la comunità: la scopertura del David di Michelangelo! Con appresso la disputa pubblica, dinanzi al Soderini, su dove meglio collocare il colosso; e che scintille tra il Buonarroti e Leonardo! E nel 1503, non da meno, la preparazione degli affreschi in Palazzo della Signoria: la Battaglia di Cascina di Michelangelo e quella di Anghiari del da Vinci, la "scuola del mondo"! Tra il 1504 e il 1508 in città c’è anche Raffaello, non bastasse tutto il resto! E allora ammiro di persona le sue Madonne (come quella del Cardellino), i suoi ritratti (come la Dama col liocorno) e la grande Pala Baglioni, quella con la Deposizione. Poi sono tra i primi ad apprezzare la nuova maniera dei pittori fiorentini, intorno agli Anni ’20: c’è fra Bartolomeo, c’è Franciabigio, ma soprattutto Andrea del Sarto con la Madonna delle Arpie e la Pietà che ha fatto a Luco nel Mugello (dove siamo andati, chi poteva, per scampare alla peste). E Andrea forma altri tre giovani promettentissimi: Rosso, di cui vedo Mosè difende le figlie di Jetro, Pontormo, con la splendida Cappella Capponi a Santa Felicita oltr’arno e con la Visitazione che salgo fino a Carmignano per ammirare, e il Bronzino (già aiuto di Pontormo) che farà fortuna negli Anni ’40 come ritrattista dei Medici e affrescatore della Cappella di Eleonora di Toledo a Palazzo. Ma intanto nel 1530 mi salvo anche dall’assedio del Lanzichenecchi di Carlo V. E poi nel 1534 torna Michelangelo a Firenze, e ci regala le Tombe Medicee; e io sto là a rimirarmele! Che più? Nel 1545, mi dicono, comincia il Concilio di Trento, nel ’48 la Pace di Vestfalia chiude la Guerra dei Trent’anni… Ma nel 1550, ben più importante, Cellini scopre il suo Perseo con la testa di Medusa; e, stesso anno, escono Le Vite di Giorgio Vasari che in pratica mette in bella copia per i posteri tutto quello che ho avuto in sorte di vedere coi miei occhi! Nel 1555, a settant’anni, mi spengo sereno e fortunato, con la notizia che Cosimo I vuole allestire nel Palazzo degli Uffizi una raccolta delle meraviglie artistiche commissionate o comprate nei decenni dalla sua grande famiglia, e addirittura vorrebbe dal Vasari stesso la costruzione di un lungo camminamento che dagli Uffizi arrivi al palazzo, già dei Pitti, residenza dei granduchi, scavalcando l'Arno sovrapponendosi al Ponte Vecchio: un capolavoro, ennesimo, di architettura e ingegneria fiorentina. Beati quelli che ne godranno di persona! Io, ad ogni buon conto, non posso lamentarmi. Risposta scartata n°2 o “la critica della ragion pratica” Sono un parigino, nato nel 1724; però non ci sono nato, a Parigi (spiego tra un attimo). Figlio di musicista parigino, giovane allievo a sua volta del grande Couperin. Mio padre gira per corti e palazzi in Europa, portando la sua musica, e quindi è perché i miei si trovavano là per il suo lavoro presso un duca prussiano che sono nato a Konigsberg, sul mar Baltico. Ci resto fino al 1740, frequento il collegio Fridericianum e il mio miglior amico è Immanuel Kant. Papà intanto ha successo eseguendo cose sue ma più spesso le partiture più in voga: Bach, Haendel, Vivaldi, Scarlatti. Io non suono, mi piace scrivere. Il ritorno della mia famiglia in Francia (per me è la prima volta) mi dà modo di finire la mia formazione. I miei se la passano bene, la musica paga alle feste di ricchi e aristocratici (anche se tra un po’ Haydn farà sembrare il babbo e i suoi preferiti tutti un po’ vecchi); io studio alla Sorbona e comincio a scrivere sulla Gazzetta di Parigi. Arrotondo anche come precettore, e nel giro dei colleghi conosco Diderot e Rousseau, più grandi di me, e D’Alembert, una via di mezzo. Frequento timidamente i loro incontri, in cui discutono le idee loro e anche quelle di Montesquieu e di Voltaire, e Voltaire stesso presenzia una volta nel 1746! Intorno al 1750 lascio la Gazzetta ma per il progetto dell’Enciclopedia, il Dizionario ragionato delle Scienze, delle Arti e dei Mestieri, che comincia a uscire nel 1751 e andrà avanti un volume all’anno fino al ’55, e finirà addirittura nel 1780 (per trentacinque tomi in tutto, tavole illustrate comprese)! Lavoro anche sulle pubblicazioni di Mably, l’abate, e suo fratello filosofo Condillac; ma di Morelly sento solo parlare tanto, senza conoscerlo direttamente, come tutti peraltro. Nel 1763 il mio vecchio genitore insiste perché vada a un’accademia, cioè un concerto in casa di privati; si esibisce un trio formato da un adulto, una ragazzina e un bambino, da Salisburgo: i Mozart, e il bimbo (diceva mio padre) è un genio precoce! Lo incontrerò ancora, a Vienna, lui già celebre, in un mio viaggio di lavoro da pubblicista di livello. Nel 1787 suoneranno a turno in una serata esclusivissima lui e un giovane pianista di Bonn, van Beethoven. Prima, nel 1779, altra trasferta, a Strasburgo, presso dei conoscenti incontro il promettente autore dalla città libera di Francoforte, Goethe, e parliamo di un romanziere inglese che piace a entrambi, Sterne del Tristram Shandy e del Viaggio in Francia e in Italia (che anche lui farà, mi dice), e dei nostri Molière e Racine. Nel 1776 avevo ovviamente seguito le vicende della guerra d’indipendenza delle colonie inglesi sul continente americano (contributo anche del nostro La Fayette, com’è noto) e avevo avuto modo di studiare il testo di Smith sulla Ricchezza delle Nazioni, appena pubblicato, che mi serve per scrivere di economia. E prima ancora, nel 1766, avevo avuto uno scambio con i lombardi Beccaria e i fratelli Verri sul loro periodico Il Caffè che riprendeva lo stile di quello che facciamo qui. Ma il resto della mia vita è Parigi. Che cambia, e cambia la Francia, e l’Europa tutta e non solo. 1774, Luigi XVI è il nuovo re ed eredita subito un dissesto contabile che non sa gestire, con buona pace di Turgot. Anzi nel ’78 muove guerra alla Gran Bretagna, ottiene poco se non un’ulteriore rovina finanziaria per la Francia; il che ingoia altri ministri delle Finanze: Necker, Calonne, Brienne, Necker ancora. 1788, convocati gli Stati Generali per l’anno dopo, e ci sarò anch’io come redattore di un cahier de doléance. Iniziano a maggio; conosco Sieyès, Mirabeau, il collega Desmoulins. Poi alla Pallacorda il Giuramento famoso, e lì vedo Bailly, Guillotin, Robespierre. Dopo diventa tutto un vortice, a un’accelerazione insostenibile, per me poi che sono un uomo di 65 anni suonati: esco di scena, scrivo a malapena, ma osservo tutto. La Bastiglia, i Sanculotti, l’Assemblea Nazionale, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, l’assalto ai castelli e alle chiese, la Costituzione, Danton, Condorcet, l’Assemblea Legislativa, i Cordiglieri, i Giacobini, la deposizione del sovrano che scappava e trama contro il popolo e il suo arresto, Marat, Brissot, Hébert, le guerre per difendere la Rivoluzione, la Convenzione Nazionale, Girondini e Montagnardi, la morte di Luigi e Antonietta, il ’93 e la nuova Costituzione, Saint Just, Roux, il Comitato di Salute Pubblica, la piazza del Terrore col sangue a torrenti, il calmiere dei prezzi, il tentativo di una democrazia radicale, la Festa dell’Essere Supremo, Fouché, Barras, Termidoro 1794. Chiudo gli occhi qualche giorno dopo Robespierre, però nel mio letto. Ho vissuto un grande secolo. Dei Lumi. Risposta scartata n°1 o “la critica della ragion pura” Sono un ateniese, nato undici anni dopo la Battaglia di Maratona ma per comodità di chi legge dirò nel 479aC (e così indicherò le date d’ora in avanti, contenti cristiani?). Mia madre è quella che ha aperto la via per Atene alle donne di Mileto e dell’Asia Minore in generale, come Aspasia di 30 anni più giovane di lei, la quale sarà ricca e potente al fianco di Pericle; mamma è semplicemente benestante, grazie al suo bel corpo e alla sua più bella mente, il che mi basta e avanza; papà, mai conosciuto. Di lavoro faccio il procacciatore d’affari per il giro di mia madre, che esercita di meno man mano e organizza di più, ma mi resta tanto tempo libero per me e i miei interessi: essenzialmente pensare. E ad Atene, in questi anni, per pensare di qualità non hai che l’imbarazzo della scelta! Vai a teatro, in occasione delle feste cittadine Dionisie e Lenee, nell’agorà o nel teatro vero e proprio come quello di Dioniso accostato al fianco dell’Acropoli, e ti gusti il pensiero in forma di drammaturgia: il vecchio Eschilo di I Persiani e I Sette contro Tebe e del più recente Prometeo incatenato; Sofocle, dell’Aiace, e che pare stia mettendo su una cosa a partire dalle storie tremende di Edipo; il precoce Euripide dell’Alcesti; o se vuoi ridere, sempre con intelligenza, Aristofane giovanissimo che proprio alle Lenee ha messo in scena Gli Acarnesi. Vai per cantieri, e allora l’ingegno ti viene incontro in forma di linee verticali, orizzontali e oblique, di masse e di vuoti in equilibrio, di piani e volumi perfetti: il grande Ictino lavora al Partenone, sul progetto originale di Callicrate ma ancora più maestoso, e il divino Fidia, superiore perfino a Mirone, lo arricchisce da par suo intorno di rilievi e dentro con la statua gigantesca della nostra dea Atena, in oro e avorio; Mnesicle intanto ricostruisce la salita all’Acropoli, con le rampe che guardano insieme il cielo di Atene e il mare del Pireo e portano ai Propilei incomparabili, accesso al cuore stesso della nostra civiltà; al loro fianco, viene su il piccolo gioiello, tutto di Callicrate, dedicato ad Atena Vittoriosa, “Nike”; e l’Eretteo, che ormai ha i suoi anni, dicono sarà presto ricostruito da zero con un progetto formidabile e avveniristico! Ma com’è possibile tutto questo? Grazie a Pericle (di cui Aspasia è compagna e consigliera, ricordate?), alcmeonide figlio di Agariste, altra grande donna, il quale dal 461aC è il leader incontrastato della città e suo territorio, l’ha resa potente verso l’esterno, ricca e colta nei propri confini, giusta tra i suoi nati e faro di tutta l’Ellade (Sparta permettendo). E a proposito di affari esteri, nel 469aC avevamo battuto definitivamente i Persiani all’Eurimedonte, dopo le vicende storiche di Maratona prima, poi di Salamina e delle Termopili (massimo rispetto agli Spartani di Leonida, in quel caso), e dopo di Platea. Mi piace pensare, dicevo, e ad Atene ecco cosa offre il panorama della filosofia in senso proprio: Anassagora è arrivato da Clazomene e ha portato la sua scuola dell’apèiron, e insieme ad essa il confronto con le teorie a lui stesso precedenti: Talete, Anassimandro e Anassimene, tutti di Mileto (come la mamma), Pitagora di Samo, Senofane di Colofone, Parmenide e Zenone da Elea, Eraclito da Efeso... figli di Achei e figli di Danai, nemici al tempo di padre Omero, ora uniti nel logos! In città inoltre si parla di altri pensatori contemporanei, anche se non li incontriamo: Empedocle di Akragas, Democrito e Leucippo, anche lui di Mileto. Questo promuove nuovo studio e altro pensiero ancora, con mio sommo gaudio (gli affari di mia madre sono andati talmente bene che ora che non c’è più ho chiuso l’attività e investo in terreni e mercanzie, senza strafare; e lo fanno i contabili per me, ovviamente); ecco il gruppo dei sofisti: Gorgia da Leontini, Protagora da Abdera come Democrito, Ippia, Trasimaco… Ma su tutti si staglia il figlio di uno scultore e di una levatrice, sfaccendato perfino più di me, Socrate, ateniese, il quale forte solo di due idee-base (“So di non sapere” e “Conosci te stesso”, la massima iscritta sul tempio di Apollo a Delfi), di una logica inesorabile e di un’umiltà ironica e contagiosa, sta lasciando secondo me tracce che passeranno alla storia! Non scrive una sola pagina, qualcuno dei suoi seguaci lo fa per lui: il giovanissimo Platone primo fra tutti. Vedremo: spero non si faccia troppi nemici con la sua evidente, scomoda per i potenti, irreprensibilità morale e intellettuale… Già, perché politicamente intanto le cose son cambiate: c’è stata la peste in città, che ha ucciso il grande Pericle, e la guerra del Peloponneso contro Sparta è in corso con alterne fortune; i nostri grandi cronisti, Erodoto e Tucidide soprattutto, stan prendendo appunti per lasciarne ai posteri veridica testimonianza. Io ho scampato la pestilenza e le battaglie, e a 70 anni, nel vostro 409aC, mi assopisco sazio della mia vita; che è andata esattamente come avrei voluto. Risposta non scartata Sono un moriori, nato non so esattamente quando ma diciamo nel XVII secolo secondo il conto di voialtri che leggete, e vissuto sulle isole Rehoku (ma diciamo, sempre per voi, sulle isole Chatam a est della Nuova Zelanda). Siamo polinesiani, di origine, ma poi per l’isolamento e le condizioni climatiche che qui son diverse, abbiamo sviluppato una cultura tutta nostra. Il cui cuore è la legge di Nunuku-whenua, il nostro grande antenato comune; la legge dice che non va mai esercitata nessuna violenza su nessuno, tantomeno l’uccisione e men che meno il cannibalismo, assolutamente! E comunque non ce n’è motivo, qui sulle Rehoku; perché siamo in numero sufficiente da poter svolgere tutti i compiti che servono alla comunità, senza che nessuno si ammazzi di fatica, e non siamo tanti da avere poi troppo poco da dividerci di ciò che è necessario. Dalla natura prendiamo quel che serve veramente al sostentamento della nostra società, niente di più, mai; con rispetto, uccidiamo gli animali del mare e del cielo senza le cui carni e pelli moriremmo tutti noi; e la natura si rigenera ordinatamente, allo stesso identico modo che se non esistessero moriori qui o altrove. La nostra impronta antropica è zero, direste voi che leggete. E il contributo specifico della nostra piccola civiltà all’aumento della sofferenza umana è altrettanto zero, direbbe chi di voi ha qualche nozione buddista, spinoziana o utilitarista. Io non so niente del mondo al di là dei nostri mari. Probabilmente è tutto come le Rehoku. O forse le Rehoku sono tutto il mondo. In entrambi i casi, e se così dovesse esser sempre stato ed essere per sempre, alla mia ora avrò vissuto la vita più felice che riesco a immaginare. L’unica in cui “amore” non sia solo una speranza, un’intenzione e una bellissima parola. Quasi alla fine il corrispondente Ansa da Berlino Est Riccardo Ehrman, accoccolato ai piedi del tavolo rialzato della conferenza stampa di Günter Schabowski, Ministro della Propaganda della DDR, chiede allora da quando le nuove Reiseregelungen ("regole di viaggio") entreranno in vigore. Schabowski cerca una risposta ufficiale nella velina del Politburo, non la trova e perciò improvvisa a sua discrezione: «Per accontentare i nostri alleati, ripeto, è stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. Se sono stato informato correttamente quest'ordine diventa efficace immediatamente.»
Sono le 18.53, ora di Berlino, di giovedì 9 novembre 1989. Finisce un mondo, ne comincia un altro. Migliore? Peggiore? Sostanzialmente uguale? Sono passati trentun anni, vi sarete ben fatti la vostra idea. La mia, forse apparentemente fuori tema, è la seguente. Che prima di Gorbačëv il mondo della speranza socialista, quello entro i suoi confini e anche quello fuori (quello dei compagni e delle compagne di ogni dove, come me per esempio), ha dovuto sorbirsi un ventennio di asfissia brežneviana e prima ancora un trentennio di stalinismo duro; il che ha portato per vie traverse e lunghe a dissidenza ed emarginazione, a rivolte e repressioni, al crollo del Muro e alla dissoluzione di quel mondo. Ma che se, per ipotesi fantastica e benedetta, si fosse invece potuto nel tempo giuntare la rivoluzione bolscevica leniniana, del 7 novembre, giusto l'altro ieri nel 1917, alla NEP di Bucharin, allo spartachismo di Rosa, all'egemonismo di Gramsci, a un tanto di rivoluzione permanente trockijsta, all'indomito repubblicanesimo spagnolo, a tutte le Resistenze al nazifascismo e tutte le Liberazioni da quell'abominio, alle punte più radicali del movimento Non-Allineati, Nehru, Tito, Nasser, all'apertura kruščëviana, all'umanesimo irriducibile del Che, al progresso civile e culturale di massa figlio dell'impegno di intellettuali e artisti di sinistra in tutto il Mondo, ai tentativi di Dubček, di Allende, di Arafat, di Palme, di Berlinguer, alle conquiste sociali ed economiche in Occidente ottenute dai sindacati di classe e dai grandi partiti comunisti, laburisti e socialdemocratici, e certo anche alla glasnost&perestrojka, il tutto condito con ogni lumumbismo, sankarismo, bikismo e mandelismo possibile, più una bella spolverata di zio Ho, Malcom X, Tupamaros e Chiapas zapatista, e guarnitura delle analisi di Benjamin, Weil, Polanyi, Bloch, Lukàcs, Marcuse, Sartre&deBeauvoir, Hobsbawm, Debord, PPP, Angela Davis, Greer, Peter Singer, Naomi Klein, Shiva e Slavoj Žižek, insieme allo spirito dei campus americani Anni '60, del Maggio di Parigi, di piazza delle Tre Culture in Messico, di piazza Tienanmen, di Timișoara, dei Global Forum, di Genova 2001, del primo chavismo, della Primavera Araba, di Occupy&Indignados, del MeToo, di Kobanê, dei Fridays for Future e di Black Lives Matter, ebbene allora il socialismo quello vero sarebbe oggi vivo e vegeto, fiaccola del mondo presente e a venire, con l'ovazione convinta, altro che dissidenza, dei popoli sotto la sua luce, a strappare metro per metro consenso e potere al capitalismo e i suoi sicari, fascismo, nazionalismo, militarismo e razzismo tra tutti, su ogni continente! E anche l'ecosistema probabilmente sarebbe assai meno in difficoltà. Bergoglio ovviamente sarebbe dei nostri, anzi in prima fila e mano nella mano con Greta da una parte e Gino Strada dall'altra! Sulla pandemia no, non mi spingo a pronunciarmi su quale effetto vi produrrebbe il mio quadro ideale... Eppure tutto ciò cui ho accennato di meraviglioso ed eroico solo sfogliando il nostro album di famiglia degli ultimi cent'anni non è meno vero del "socialismo reale", ossia del dispositivo crono-politico Stalin più Brežnev, e sue conseguenze ed epigoni, il cui tramonto si contrassegna col crollo del Muro oggi, trentun anni fa; il quale dispositivo, nella memoria artefatta del pensiero dominante, viene inculcato nella testa della gente come la reificazione unica e orrenda di un'alternativa radicale rispetto al sistema del possesso, del privilegio, dello sfruttamento e dello spreco in cui siamo immersi da secoli. Ma abbiamo appena squadernato cosa il nostro progetto di un mondo diverso ha già regalato a questo mondo qui! Però, d'accordo, coi se e coi ma non si fa la Storia; la quale infatti ha deciso altrimenti. Per ora. Mi sto godendo in TV dal “City of Manchester Jazz Club” un session contest tra la resident big band e la Liverpool. E’ finito ora il primo set, e dopo la pausa torneranno sul palco per la ripresa. Suonano brani di Klopp e di Guardiola, che sono lì ovviamente anche a dirigere, e i solisti sono del calibro di Alisson, Wijnaldum, Manè, Salah e Walker, De Bruyne, Sterling, Gabriel Jesus. Grande jazz! Un assolo di Jesus ha strappato l’ovazione, invece De Bruyne ha steccato proprio su una frasetta facile… vabbè succede.
Per ora il contest tra le band è pari, la session è di livello, e gli autori/arrangiatori staranno adesso nei camerini a tirar fuori altre variazioni da far provare agli strumenti al ritorno sul palco. Peccato manchino stasera interpreti come Van Dijk e Aguero, ma in una big band i rincalzi sono star comunque! Queste session dai club europei, rifletto, specie se a suonare non è la band del tuo cuore (per me la Roma, resident dell’”Olimpico Jazz Club”), che in quel caso hai sempre un po’ d’ansia, ebbene riesci a godertele davvero per il puro gesto musicale sulla scena e, se ci capisci un po’ di più, anche per le partiture degli autori che senti dispiegarsi nelle strutture armoniche e ritmiche su cui poi i solisti improvvisano a talento loro. Insomma, grande spettacolo! ...Sembra football, ora che ci penso. Rientrano, enjoy the play! Alla ripresa, devo dire però, sono andati di standard un po' usurati, e senza troppa fantasia. Sì, credo che Klopp abbia messo in mano ai suoi uno spartito alla Unforgettable, Guardiola uno alla Blue Gardenia, e tutti e due si sono raccomandati di non steccare, che il pubblico e la critica queste cose le puniscono, e di contest per brillare ce n'è tanti ancora. Sta finendo il concerto… Aspetta, che Shaquiri lancia il bis… uno stacchetto solo per gradire. Va bene così, la musica è stata in ogni modo interessantissima. Proprio come una grande partita di calcio. Viva le arti popolari del XX e XXI secolo! |