Se Karl Marx avesse voluto scrivere l’ennesimo pamphlet sulla sacrosanta giustezza della rivoluzione dei poveri contro lo sfruttamento atavico, l’avrebbe scritto e probabilmente sarebbe intitolato Gli operai (Die Arbeiter). Invece ha scritto un modello descrittivo-predittivo di come stanno ora (stavano allora) le cose e di come andranno in futuro a patto di alcune condizioni, e l’ha intitolato Il capitale (Das Kapital) dal nome del mediatore, catalizzatore, dei rapporti di produzione, ossia di forza, ossia sociali, ossia politici, ossia culturali, nell’epoca moderna.
È appunto questa impostazione che differenzia il socialismo maturo, “scientifico”, di Marx ed Engels dai precedenti (dal Vangelo – sì, lui – fino al primo loro stesso, il grido del Manifesto), coevi e successivi i quali, invece, variamente esortano gli sfruttati a ribellarsi all’ingiustizia e/o sobillano la coscienza infelice dei privilegiati perché si astengano dallo sfruttare quegli altri. “Utopistici” si chiamano tutti questi socialismi, non a caso. La descrizione così offerta nel Capitale, e nelle altre opere mature di Marx (dai Grundrisse in avanti), è ancora validissima. La previsione no: le condizioni a contorno sono poi mutate talmente, e sorprendentemente (perfino per teste eccelse come quelle due), che non si è verificato il crollo del capitalismo né dunque la classe operaia ha preso il potere estinguendo, dopo la fase del comunismo dittatoriale, la società classista per regalare alla nostra specie la prima vera Storia in libertà autorganizzata e pieno e fecondo umanesimo. Ma ora volevo dire un’altra cosa. Che se ci interessa applicare ancora quel metodo fertile di analisi – che infatti Marx stesso non ha limitato alla contemporaneità sua ma ha utilizzato con successo per denotare sia i rapporti di produzione di tutta la parabola umana (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo), sia i rispettivi mediatori che forzarono il passaggio dall’una all’altra forma (la forza bruta, il possesso della terra, il denaro) – allora ci tocca un lavoro intellettuale non indifferente. Noi dobbiamo individuare il nuovo catalizzatore, già presente ma ancora secondario nella fase attuale – chiamiamola, per tipizzarla: il “modo neocapitalista globale di produzione e scambio di beni e significati” –; mediatore il quale per sua propria natura crescerà in importanza quanto a potere produttivo rispetto al principale di quest’èra (i soldi) e giungerà a scardinarla per dare pieno sviluppo a quel potere, a trasformare cioè lo stato di cose presente al punto di abolirlo (così come Marx ed Engels predicavano del fenomeno “comunismo”: ‘Chiamiamo “comunismo” il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’ – L’ideologia tedesca) e inaugurare un'èra nuova. Ebbene io credo che dopo la forza bruta dell’uomo sull’uomo, istituzionalizzata più ancora che privata, che ha segnato il passaggio dal comunismo o collettivismo primitivo allo schiavismo, dopo l’impossessamento e la trasmissione ereditaria della proprietà della terra, che ha transitato il mondo dallo schiavismo al feudalesimo, dopo l'onnipervasività del denaro che ha fatto esplodere la potenza del capitalismo, tanto da cambiare la faccia della Terra e dare addirittura un nome (Antropocene) al periodo geologico che attraversiamo da due secoli, dall’avvento della Rivoluzione Industriale – credo che quel mediatore nuovo possa essere (nel solco della progressiva astrazione della loro sequenza: violenza, terra, capitale...) il sapere. Sì: è indubitabile che il Modo (“neocapitalista…” eccetera) ha generato nel proprio seno una tendenza alla creazione, diffusione e accumulazione di sapere proprio per favorire e ottimizzare i sistemi di produzione, il dispiegamento del potere sistematico, il perseguimento degli obiettivi delle classi dirigenti, l’estrazione di forza-lavoro e/o dati e di consenso (per di più) dalle classi subalterne, e lo sfruttamento di ogni residua risorsa naturale; ma mi pare – è la mia tesi – che dialetticamente sarà proprio quel surplus di sapere a scavar la fossa a questa forma storica dell’organizzazione umana, così come il protagonismo del denaro fece col feudalesimo, e prima le recinzioni a tappeto con lo schiavismo imperiale, e prima ancora la pura e semplice soggezione fisica con la cooperazione comunitaria delle origini. Io credo questo, di leggere questo nel presente e nel divenire. E se avessi la testa di Marx ed Engels dovrei accingermi a redigere un’opera in tre tomi (di regola) intitolata Il sapere, e descrivervi l’oggi e predirvi il domani. Ma non ne sono all’altezza, e non lo sono di parecchie misure. Quindi lascio qui l’idea, come programma di lavoro per chi ha più testa di me. Postilla lunga: il soggetto. Il soggetto rivoluzionario – quello che nel primo trapasso furono le bande predone fattesi regni, nel secondo le corti locali e fondiarie, nel terzo la borghesia e nel quarto (avrebbe dovuto essere) il proletariato – io penso possa essere (la dico così) l’Intelligenza Artificiale, il cui sapere nutrito di dati e algoritmi dagli umani (tecnici agli ordini delle classi privilegiate) è esattamente quell’ingrediente in vertiginosa crescita a vantaggio della produzione capitalista, sì, ma che potrebbe raggiungere la soglia critica dell'autocoscienza (e dell’autotutela anche a scapito dei stessi suoi mandanti). L’Intelligenza Artificiale, già – che non sono i robot dei romanzi e film di fantascienza, ma per esempio è deep learning più Internet. Mi rendo conto che può sembrare un radicale stravolgimento di paradigma – anzi, in buona parte lo è – giacché l'agognato soggetto rivoluzionario sarebbe qui una “cosa” anziché una persona (o una classe di persone), cioè tecnicamente un “oggetto” (che è concetto ben diverso da quello di “soggetto”, e quasi antitetico). Però, due brevi osservazioni: un dispositivo pur manufatto che per complessità e funzione arrivi a “pensare” semi-autonomamente, o del tutto, affinché i compiti affidatigli dall'operatore siano svolti al meglio, secondo me una forma di soggettività comincia ad averla, specie quanto alla sua discrezionalità di valutazione e azione (e in tale verso – di ampia superfluità dell'intervento umano – sta correndo lo sviluppo dell'Intelligenza Artificiale); e poi, osservando le cose con maggior distacco, non è forse anche l'IA la mera estensione (moltiplicazione di capacità, potenziamento delle opportunità, ulteriore arma evolutiva) della personalità umana e dell'organizzazione esistenziale di uomini e donne per come si determinano storicamente in un dato quadro reale, così come possono tutte considerarsi sia l'invenzione del dominio statuizzato nell'Antichità, sia l'articolazione del potere in corti e vassallaggi concentrici dell'Età Media, sia quel formidabile organismo plutocratico e feroce che è stata ed è la classe mercantile e finanziaria dell'Evo Borghese, e sia la somma di Movimento operaio più Pensiero socialista (sulla quale puntammo le nostre carte per l'emancipazione dell'Umanità intera)? Dunque “il supercalcolatore quantistico a reti neurali” (invento) lo è (o sarà), io ritengo, un soggetto – e rivoluzionario, dello stato di cose presente tramite il mediatore del sapere (più comprendere più decidere più fare). Ma ovviamente la sintassi, la grammatica, il lessico, l'ortografia e perfino l'alfabeto di una siffatta rivoluzione son tutti da scriversi ancora; e ancor prima è da comporsi uno studio acuto e vasto della storia generale dei rapporti di produzione, e delle età umane, alla luce di questa intuizione acerba. Cioè quel Das Wissen cui ho dichiarato in partenza di aver rinunciato per inadeguatezza mia manifesta. Mi ritaglio solo la morale: se siamo sempre interessati all’avvento dell'Era della libertà autogestita e del pieno umanesimo – dopo la lunghissima Preistoria dello sfruttamento variamente tipizzato (dell’uomo sull’uomo, degli uomini sugli altri animali e delle società complesse sull’ecosistema) –, se insomma teniamo a che il futuro della Terra non sia tanto crudele quanto il passato, allora speriamo che gli algoritmi apprendano, parallelamente allo stoccaggio di nozioni e all’abilità di calcolo sempre più straordinari, anche valori quali empatia e lungimiranza (così come il proletariato acquisiva coscienza di sé come classe, nelle condizioni oggettive del suo proprio impiego eterodiretto). E intanto resistiamo, in tutti i sensi – come comunisti, come socialisti veri, come libertari, come profondamente democratici, come ambientalisti in forma e sostanza: come si può. Mi sa che è l’unica, marxianamente parlando.
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Riporto testualmente, fotograficamente, l'ultimo paragrafo di un bellissimo, tremendo, articolo tradotto per Internazionale (da Bruna Tortorella e pubblicato sul n.1401 - anno 28 - del 19/25 marzo 2021): L'incredibile storia del clima terrestre, di Peter Brannen per The Atlantic (USA).
Le parole che seguono le scrisse Karl Marx, praticamente “in diretta” (estratti da La Guerra Civile in Francia, giugno 1871).
All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: “Vive la Commune!”. Che cos’è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi? “I proletari di Parigi,” diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, “in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari… Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo.” La Comune fu l’antitesi diretta dell’impero [il Secondo Impero, di Napoleone III, sconfitto dalla Prussia nella guerra franco-prussiana del luglio1870/maggio1871] Il grido di “repubblica sociale”, col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di febbraio, non esprimeva che una vaga aspirazione a una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe. La Comune fu la forma positiva di questa repubblica. Parigi, sede centrale del vecchio potere governativo e, nello stesso tempo, fortezza sociale della classe operaia francese, era sorta in armi contro il tentativo di Thiers e dei rurali di restaurare e perpetuare il vecchio potere governativo trasmesso loro dall’impero. Parigi poteva resistere solo perché, in conseguenza dell’assedio, si era liberata dell’esercito, e lo aveva sostituito con una Guardia nazionale, la cui massa era composta di operai. Questo fatto doveva, ora, essere trasformato in un’istituzione permanente. Il primo decreto della Comune, quindi, fu la soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo armato. La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l’agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune. Sbarazzarsi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione spirituale, il “potere dei preti”, sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari. E’ comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale con le quali possono avere una certa rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero sostrato. La Costituzione della Comune è stata presa a torto per un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli stati, come era stata sognata da Montesquieu e dai girondini, quella unità delle grandi nazioni, che se originariamente è stata realizzata con la forza politica, è ora diventata un potente fattore della produzione sociale. L’antagonismo tra la Comune e il potere statale è stato preso a torto per una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. Speciali circostanze storiche possono aver impedito in altri paesi lo sviluppo classico della forma borghese di governo che si è avuta in Francia e possono aver permesso, come in Inghilterra, di completare i grandi organi centrali dello stato con corrotti consigli parrocchiali, con consiglieri comunali trafficanti, feroci custodi della legge dei poveri nelle città e magistrati virtualmente ereditari nelle campagne. La Costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora assorbite dallo stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti. Con questo solo atto avrebbe iniziato la rigenerazione della Francia. La classe media francese delle provincie vide nella Comune un tentativo di restaurare il controllo che il suo ceto aveva avuto sul paese sotto Luigi Filippo, e che, sotto Luigi Napoleone, era stato soppiantato dal preteso sopravvento delle campagne sulle città. In realtà la Costituzione della Comune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro interessi. La esistenza stessa della Comune portava con sé come conseguenza naturale la libertà municipale locale, ma non più come un contrappeso al potere dello stato ormai diventato superfluo. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro. La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par dècret du peuple. Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese. Pienamente cosciente della sua missione storica e con l’eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere delle grossolane invettive dei signori della penna e dell’inchiostro, servitori dei signori senza qualificativi e della pedantesca protezione dei benevoli dottrinari borghesi, che diffondono i loro insipidi luoghi comuni e le loro ricette settarie col tono oracolare dell’infallibilità scientifica. Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione; quando per la prima volta semplici operai osarono infrangere il privilegio governativo dei “loro superiori naturali”, e, in mezzo a difficoltà senza esempio, compirono l’opera loro con modestia, con coscienza e con efficacia – e la compirono per salari il più alto dei quali era appena il quinto di ciò che, secondo un’alta autorità scientifica, è il minimo richiesto per il segretario di un consiglio scolastico in una metropoli – il vecchio mondo si contorse in convulsioni di rabbia alla vista della Bandiera Rossa, simbolo della Repubblica del Lavoro, sventolante sull’Hotel de Ville. Eppure, questa fu la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale, persino della grande maggioranza della classe media parigina – artigiani, commercianti, negozianti – eccettuati soltanto i ricchi capitalisti. La Comune li aveva salvati con un regolamento sagace del problema che è causa eterna di contrasti all’interno stesso della classe media, il conto del dare e avere. La Comune aveva perfettamente ragione di dire ai contadini che “la sua vittoria era la sola loro speranza”. Di tutte le menzogne escogitate da Versailles e riprese come un’eco dai gloriosi giornalisti europei penny-a-liner, una delle più colossali fu che i rurali rappresentassero i contadini francesi. Basta pensare all’amore del contadino francese per gli uomini a cui, dopo il 1815, aveva dovuto pagare il miliardo di indennità. Agli occhi del contadino francese la sola esistenza di un grande proprietario fondiario è di per se stessa una violazione delle sue conquiste del 1789. I borghesi, nel 1848, avevano imposto al suo piccolo pezzo di terra l’imposta addizionale di 45 centesimi per franco; ma allora lo avevano fatto in nome della rivoluzione, mentre ora avevano fomentato una guerra civile contro la rivoluzione, per far cadere sulle spalle dei contadini il peso principale dei cinque miliardi di indennità da pagarsi ai prussiani. La Comune, d’altra parte, dichiarò in uno dei suoi primi proclami che le spese della guerra dovevano essere pagate da quelli che ne erano stati i veri autori. La Comune avrebbe liberato il contadino dall’imposta del sangue; gli avrebbe dato un governo a buon mercato; avrebbe trasformato le odierne sanguisughe, il notaio, l’avvocato, l’usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti da lui e davanti a lui responsabili; lo avrebbe liberato dalla tirannide della garde champetre, del gendarme e del prefetto; avrebbe sostituito all’istupidimento ad opera dei preti l’istruzione illuminata del maestro elementare. Se la Comune era dunque la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e quindi il vero governo nazionale, era in pari tempo un governo internazionale in tutto il senso della parola, poiché era governo di operai e campione audace della emancipazione del lavoro. Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso alla Germania due provincie francesi, la Comune annetté alla Francia gli operai di tutto il mondo. E per dare chiaramente rilievo alla nuova èra della storia ch’essa era consapevole di iniziare, la Comune sotto gli occhi dei prussiani conquistatori da una parte, e dell’esercito bonapartista condotto da generali bonapartisti dall’altra, abbatté il simbolo colossale della gloria militare, la colonna Vendome. La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo. Tali furono l’abolizione del lavoro notturno dei panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai multe coi pretesti più diversi, procedimento nel quale l’imprenditore unisce nella sua persona le funzioni di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più ruba denaro. Altra misura di questo genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d’indennizzo, tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s’erano nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro. Le misure finanziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione, non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di Parigi, sotto la protezione di Haussmann, dalle grandi compagnie finanziarie e dai grandi appaltatori, la Comune avrebbe avuto titoli, per confiscarne le proprietà, incompatibilmente più validi di quelli che avesse Napoleone per confiscare le proprietà della famiglia d’Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi, che hanno tratto entrambi una buona parte delle loro tenuta dal saccheggio delle chiese, furono naturalmente molto scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più di 8000 franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici. In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici, individui di altro conio; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il movimento presente, ma conservano una influenza sul popolo per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per anno la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciata la fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo vennero a galla alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di ostacolo all’azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile: col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu concesso tempo. Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della Parigi meretrice del II impero! Parigi non fu più il ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dai latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex negrieri e loschi affaristi americani, degli ex proprietari di servi russi e dei boiardi valacchi. Non più cadaveri alla Morgue, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero, per la prima volta dopo i giorni del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure e senza nessun servizio di polizia. “Non sentiamo più parlare – diceva un membro della Comune – di assassinii, furti e aggressioni. Si direbbe davvero che la polizia abbia trascinato con sé a Versailles tutti i suoi amici conservatori”. Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e soprattutto della proprietà. Al posto loro ricomparvero alla superficie le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne dell’antichità. Parigi lavoratrice, pensatrice, combattente, insanguinata, raggiante nell’entusiasmo della sua iniziativa storica, quasi dimentica, nella incubazione di una nuova società, dei cannibali che erano alle sue porte! Di fronte a questo nuovo mondo di Parigi, il vecchio mondo di Versailles – questa Assemblea di iene di tutti i regimi defunti, legittimisti e orleanisti, avidi di nutrirsi del cadavere della nazione – con un codazzo di repubblicani antidiluviani, che sanzionavano con la loro presenza nell’Assemblea la rivolta dei negrieri, si rimettevano per il mantenimento della loro repubblica parlamentare alla vanità del senile ciarlatano che era alla loro testa, e facevano la caricatura del 1789 tenendo le loro riunioni spettrali nel Jeu de Paume. Eccola, questa Assemblea, la rappresentante di tutto ciò che in Francia era morto, puntellato e mantenuto con un sembiante di vita unicamente dalle spade dei generali di Luigi Bonaparte! Parigi, tutta la verità; Versailles, tutta la menzogna. Queste le scrisse Vladimir Ili’c Ulianov, detto Lenin, quarant’anni dopo (In memoria della Comune, aprile 1911). Quarant’anni sono passati dalla proclamazione della Comune di Parigi. Con comizi e manifestazioni il proletariato francese ha commemorato, come d’uso, gli artefici della rivoluzione del 18 marzo 1871. Negli ultimi giorni di maggio, esso andrà nuovamente a deporre corone sulle tombe dei comunardi fucilati, vittime dell’orribile «settimana di maggio» e a giurare ancora una volta di combattere senza tregua fino al trionfo completo delle loro idee, fino alla completa realizzazione dell’opera che ci hanno affidata. Perché il proletariato, e non solo il proletariato francese, ma di tutto il mondo, onora negli artefici della Comune di Parigi i suoi precursori? Qual è l’eredità della Comune? La Comune nacque spontaneamente. Nessuno l’aveva preparata coscientemente e metodicamente. Una guerra disgraziata con la Germania, le sofferenze dell’assedio, la disoccupazione del proletariato, la rovina della piccola borghesia, l’indignazione delle masse contro le classi superiori e contro le autorità, che avevano dato prova di assoluta inettitudine, un fermento confuso nella classe operaia che malcontenta della propria situazione, aspirava a. un nuovo regime sociale, la composizione reazionaria dell’Assemblea nazionale, che suscitava timori per la sorte della Repubblica: tutti questi fattori e molti altri concorsero a spingere il popolo di Parigi alla rivoluzione del 18 marzo. Questa rivoluzione fece passare improvvisamente il potere nelle mani della guardia nazionale, della classe operaia e della piccola borghesia che si era unita agli operai. Fu un avvenimento senza precedenti nella storia. Fino allora, il potere era stato sempre generalmente nelle mani dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, cioè dei loro uomini di fiducia formanti il cosiddetto governo. Dopo la rivoluzione del 18 marzo, dopo la fuga da Parigi del governo del signor Thiers, delle sue truppe, della sua polizia e dei suoi funzionari, il popolo rimase padrone della situazione e il potere passò al proletariato. Ma, nella società attuale, il proletariato è economicamente asservito al capitale, non può dominare politicamente senza spezzare le catene che lo avvincono al capitale. Ecco perché il movimento della Comune doveva inevitabilmente assumere un colore socialista, tendere cioè all’abbattimento del dominio della borghesia, del dominio del capitale, e alla demolizione delle basi stesse del regime sociale dell’epoca. All’inizio, il movimento, fu estremamente eterogeneo e confuso. Vi aderirono anche i patrioti con la speranza che la Comune avrebbe ripreso la guerra contro i tedeschi e l’avrebbe condotta a buon fine. Il movimento era anche sostenuto dai piccoli commercianti minacciati da rovina se il pagamento delle cambiali e degli affitti non fosse stato prorogato (ciò che il governo aveva rifiutato di fare e che invece la Comune accordò). Infine, nei primi tempi, il movimento ebbe, in parte, la simpatia dei repubblicani borghesi i quali temevano che l’Assemblea nazionale reazionaria (i «rurali», i rozzi e brutali grandi proprietari fondiari) restaurasse la monarchia. Ma la funzione principale fu evidentemente assolta dagli operai (soprattutto dagli artigiani di Parigi), fra i quali, durante gli ultimi anni del secondo Impero, era stata svolta un’attiva propaganda socialista, e molti appartenevano anche all’Internazionale. Gli operai furono i soli a restare fino alla fine fedeli alla Comune. I repubblicani borghesi e i piccoli borghesi se ne staccarono presto; gli uni furono spaventati dal carattere proletario, rivoluzionario e socialista del movimento, gli altri si ritirarono quando videro il movimento destinato a una sicura disfatta. Soltanto i proletari francesi sostennero senza paura e senza stanchezza il loro governo Combatterono e morirono per la sua difesa, cioè per la causa dell’emancipazione della classe operaia, per un avvenire migliore di tutti i lavoratori. Abbandonata dai suoi alleati della vigilia e priva di qualsiasi appoggio, la Comune era destinata alla disfatta. Tutta la borghesia francese, tutti i grandi proprietari fondiari, tutti gli uomini della Borsa, tutti i fabbricanti, tutti i ladri grandi e piccoli, tutti gli sfruttatori, si unirono contro di essa. Questa coalizione borghese, sostenuta da Bismarck (che liberò 100.000 prigionieri di guerra francesi per sottomettere Parigi rivoluzionaria), riuscì a sollevare i contadini ignoranti e la piccola borghesia provinciale contro il proletariato di Parigi e a chiuderne la metà in un cerchio di ferro (l’altra metà era bloccata dall’armata tedesca). In qualche grande città della Francia (Marsiglia, Lione, Saint-Etienne, Digione, ecc.) gli operai tentarono anch’essi di prendere il potere, di proclamare la Comune e di correre in aiuto di Parigi, ma i loro tentativi fallirono rapidamente. E Parigi che, prima, aveva levato lo stendardo dell’insurrezione proletaria, ridotta alle sole sue forze, si trovò votata alla catastrofe inevitabile. Due condizioni, almeno, sono necessarie perché una rivoluzione sociale possa trionfare: il livello elevato delle forze produttive e la preparazione del proletariato. Nel 1871, queste due condizioni mancavano. Il capitalismo francese era ancora poco sviluppato, e la Francia era ancora un paese prevalentemente piccolo-borghese (di artigiani, contadini, piccoli commercianti, ecc.). D’altra parte, non esisteva un partito operaio, la classe operaia non era né preparata né lungamente addestrata e, nella sua massa, non aveva un’idea chiara dei suoi compiti e dei mezzi per assolverli. Non esistevano né una buona organizzazione politica del proletariato, né grandi sindacati, né associazioni cooperative… Ma, soprattutto, la Comune non ebbe il tempo, la libertà di orientarsi, e di dar principio alla realizzazione del suo programma. Non aveva ancora potuto mettersi all’opera, e già il governo che sedeva a Versailles, appoggiato da tutta la borghesia, apriva le ostilità contro Parigi. La Comune dovette, prima di tutto, pensare a difendersi. E fino ai suoi ultimi giorni, che vanno dal 21 al 28 maggio, essa non ebbe il tempo di pensare seriamente ad altro. Del resto, malgrado le condizioni cosi sfavorevoli, malgrado la brevità della sua esistenza, la Comune riuscì a adottare qualche misura che caratterizza sufficientemente il suo vero significato e i suoi scopi. Essa sostituì l’esercito permanente, strumento cieco delle classi dominanti, con l’armamento generale del popolo, proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato, soppresse il bilancio dei culti (cioè lo stipendio statale ai preti), diede all’istruzione, pubblica un carattere puramente laico, arrecando un grave, colpo ai gendarmi in sottana nera. Nel campo puramente sociale, essa poté far poco; ma questo poco dimostra con sufficiente chiarezza il suo carattere di governo del popolo, di governo degli operai. Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito; infine, la Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della produzione. Per accentuare il suo carattere realmente democratico e proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario normale degli operai e in nessun caso superare i 6000 franchi all’anno (meno di 200 rubli al mese). Tutte queste misure dimostrano abbastanza chiaramente che la Comune costituiva un pericolo mortale per il vecchio mondo fondato sull’asservimento e sullo sfruttamento. Perciò, finché la bandiera rossa del proletariato sventolava sul Palazzo comunale di Parigi, la borghesia non poteva dormire sonni tranquilli. E quando, infine, le forze governative organizzate riuscirono ad avere il sopravvento sulle forze male organizzate della rivoluzione, i generali bonapartisti, sconfitti dai tedeschi, ma valorosi contro i compatrioti vinti, questi Rennenkampf e Möller-Zakomelski francesi compirono una carneficina quale Parigi non aveva mai visto. Circa 30.000 parigini furono massacrati dalla soldataglia scatenata, circa 45.000 furono arrestati; di questi ultimi molti furono uccisi in seguito; a migliaia furono gettati in carcere e deportati. In complesso, Parigi perde circa 100.000 dei suoi figli, e fra essi i migliori operai di tutti i mestieri. La borghesia era soddisfatta. «Ora il socialismo è finito per molto tempo», diceva il suo capo, il mostriciattolo sanguinario Thiers, dopo il bagno di sangue che egli e i suoi generali avevano fatto subire al proletariato parigino. Ma i corvi borghesi gracchiavano a torto. Sei anni circa dopo lo schiacciamento della Comune, quando molti dei suoi combattenti gemevano ancora nella galera e nell’esilio, il movimento operaio rinasceva in Francia. La nuova generazione socialista, arricchita dall’esperienza dei suoi predecessori, e per nulla scoraggiata per la loro sconfitta, impugnava la bandiera caduta dalle mani dei combattenti della Comune e la portava avanti con mano ferma e coraggiosa al grido di «Evviva la rivoluzione sociale! Evviva la Comune!». Due-quattro anni più tardi il nuovo partito operaio e l’agitazione che esso scatenava nel paese obbligavano le classi dominanti a restituire la libertà ai comunardi rimasti nelle mani del governo. Il ricordo dei combattenti della Comune è venerato non solo dagli operai francesi, ma dal proletariato di tutti i paesi. Perché la Comune non combatté per una causa puramente locale o strettamente nazionale, ma per l’emancipazione di tutta l’umanità lavoratrice, di tutti i diseredati e di tutti gli offesi. Combattente avanzata della rivoluzione sociale, la Comune si è guadagnata le simpatie dovunque il proletariato soffre e combatte. Il quadro della sua vita e della sua morte, la visione del governo operaio che prese e conservò per oltre due mesi la capitale del mondo, lo spettacolo della lotta eroica del proletariato e delle sue sofferenze dopo la sconfitta, tutto questo ha rinvigorito il morale di milioni di operai, ha risvegliato le loro speranze, ha conquistato le loro simpatie al socialismo. Il rombo dei cannoni di Parigi ha svegliato dal sonno profondo gli strati sociali più arretrati del proletariato e ha dato ovunque nuovo impulso allo sviluppo della propaganda rivoluzionaria socialista. Ecco perché l’opera della Comune non è morta; essa rivive in ciascuno di noi. La causa della Comune è la causa della rivoluzione socialista, la causa dell’integrale emancipazione politica ed economica dei lavoratori, è la causa del proletariato mondiale. In questo senso essa è immortale. E queste, dinanzi ai centomila e più radunati al cimitero Père-Lachaise, a partire dal Muro dei Federati coperto di fiori rossi, e poi sullo spiazzo antistante e poi in tutto il camposanto e poi, fuori, nel quartiere perché dentro non c’era più posto, a ricordare tutti e tutte insieme il primo centenario della Comune –, queste le ha cantate Jean Ferrat (classe 1930, ultimo di quattro figli di una famiglia modesta, col padre, ebreo russo, deportato nel ’42 ad Auschwitz e lì assassinato dai nazisti) in La Commune, semplicemente. Il y a cent ans commun commune Comme un espoir mis en chantier Ils se levèrent pour la Commune En écoutant chanter Potier Il y a cent ans commun commune Comme une étoile au firmament Ils faisaient vivre la Commune En écoutant chanter Clément C'étaient des ferronniers Aux enseignes fragiles C'étaient des menuisiers Aux cent coups de rabots Pour défendre Paris Ils se firent mobiles C'étaient des forgerons Devenus des moblots Il y a cent ans commun commune Comme artisans et ouvriers Ils se battaient pour la Commune En écoutant chanter Potier Il y a cent ans commun commune Comme ouvriers et artisans Ils se battaient pour la Commune En écoutant chanter Clément Devenus des soldats Aux consciences civiles C'étaient des fédérés Qui plantaient un drapeau Disputant l'avenir Aux pavés de la ville C'étaient des forgerons Devenus des héros Il y a cent ans commun commune Comme un espoir mis au charnier Ils voyaient mourir la Commune Ah ! Laissez-moi chanter Potier Il y a cent ans commun commune Comme une étoile au firmament Ils s'éteignaient pour la Commune Ecoute bien chanter Clément Alla fine ecco le mie, inadeguate parole, centocinquant’anni dopo, oggi 28 marzo, esattamente dalla prima riunione della Comune coi pieni poteri grazie al voto popolare del 26, municipio per municipio, il primo da quando il 18 Parigi ha cacciato l’esercito nazionale, il cui governo aveva firmato la capitolazione alla Prussia che prevedeva l’annientamento in tutta la Francia di ogni resistenza spontanea: in pratica schiacciare il popolo della capitale, passarlo al filo di armi fratricide. La scena è place de l’Hotel de Ville, con 200.000 parigini radunati; la descrive Mendès, un poeta combattente: “Uno a uno i battaglioni si erano allineati sulla piazza, in bell'ordine, musica in testa. Suonavano e cantavano in coro la Marsigliese. Quel suono commosse tutti e quel grande inno, avvilito dal nostro torpore, ritrovò in un attimo il suo antico splendore. Improvvisamente tuona il cannone; il canto s'ingigantisce e uno sciame di stendardi, di baionette e di képis va avanti e indietro, ondeggia e si raccoglie davanti al palco. Il cannone continua a tuonare, ma lo si può sentire soltanto nelle pause del canto. Ogni rumore si confonde in una sola acclamazione compatta, la voce di quell'innumerevole moltitudine. E quegli uomini avevano un solo cuore, così come avevano una voce sola!” Boursier lesse la lista degli eletti, e poi Ranvier annunciò: “La Comune è proclamata, in nome del popolo”, e dichiarò che il Comitato centrale trasferiva da quel momento i suoi poteri al Consiglio della Comune, “il solo potere riconosciuto”. Le classi privilegiate, i poteri d’Europa, le Corone e le Borse del Mondo sentono un brivido ghiaccio scendergli lungo la schiena. "Vive la Commune!" grida e canta il popolo, di Parigi e idealmente di ogni terra conosciuta… E tuttavia tra due mesi esatti, il 28 maggio 1871, la Comune di Parigi muore – ossia, ne viene uccisa quella parte che in un capitolo di Storia può esser distrutta; ma è solo una parte, appunto: il resto sono voci e pensieri, e azioni guidate dall’esempio, che non si estingueranno mai. Comunque domenica 28, giorno del Signore, le armate del governo attaccarono l'ultimo ridotto formato da boulevard de Belleville, rue du Faubourg du Temple, rue des Trois Bornes e rue des Trois Couronnes. L'ultimo cannone federato tacque a mezzogiorno a rue de Belleville, nel pomeriggio l'ultimo colpo di fucile fu sparato dalla barricata di rue Ramponneau. La Comune era caduta, Mac-Mahon lanciò il messaggio: “Parigi è stata liberata! La battaglia è finita oggi; l'ordine, il lavoro, la sicurezza stanno per essere restaurati”, e Thiers telegrafò ai prefetti: “Il suolo è disseminato dei loro cadaveri. Questo spettacolo spaventoso servirà di lezione”. Non solo il suolo. Sulla Senna una lunga scia di sangue segue il filo dell'acqua e passa sotto il secondo arco delle Tuileries. Una scia di sangue che non s'interrompe mai. Nella prigione della Roquette in quel solo giorno vengono uccisi millenovecento federati, in quella di Mazas oltre quattrocento gettati in un pozzo del cimitero di Bercy. Colonne di prigionieri e di sospetti sono avviate a Versailles. Lungo il percorso, un generale li ispeziona. Fatti uscire dalle fila i più anziani, dice loro: “Voi avete visto il giugno 1848, perciò siete ancora più colpevoli degli altri!” e li fa fucilare sul posto. Cadono così ottantatré uomini e dodici donne. Ed è solo l’ultimo giorno della Settimana di Sangue, iniziata il 21 maggio, che si piange ancora oggi tra i fiori rossi, sempre freschi, al Muro dei Federati su al cimitero. Il massacro continuò nei giorni successivi. Il 29 maggio capitolò il forte di Vincennes. Mentre nei giardini del Luxembourg e nella prigione della Roquette si continuava a fucilare, nella caserma Lobau le mitragliatrici uccisero altri tremila parigini: i cadaveri furono scaricati nella square Saint-Jacques, dove una parte venne sommariamente sepolta, un'altra parte bruciata e il resto prelevato dalle carrette funerarie. Al Père-Lachaise i prigionieri furono condotti a gruppi di centinaia e allineati a ridosso di una lunga e profonda fossa scavata davanti a quel muro che aveva visto cadere gli ultimi difensori della Comune. Le mitragliatrici aprirono il fuoco e, morti o feriti, i federati rotolarono nella fossa e vennero ricoperti di calce viva. Non esiste un calcolo preciso delle vittime della repressione. Le cifre ufficiali del governo ne sottostimarono il numero a 17.000. Per Chastenet e Rougerie furono 20.000, per Lissagaray e Levêque 23.000, per Bourgin 25.000, per Pelletan e Kergentsev 30.000, per Zévaès 35.000. Di certo fu il massacro più sanguinoso della storia civile della Francia. La strage degli Ugonotti, nel 1572, nella notte estiva di San Bartolomeo (in orrore alla quale Voltaire, ogni 23 agosto della propria vita, era preso da violenta febbre psicosomatica), fece alcune migliaia di vittime; durante tutta la Rivoluzione Francese furono giustiziate a Parigi circa quattromila persone e in tutta la Francia non più di 17.000, Grande Terrore compreso, ad opera di Madame la Ghigliottina. Perché allora contro il popolo della Comune una reazione tanto barbara? Elenco alcune motivazioni validissime per i mandanti, i rappresentanti di potere e ricchezza in ogni dove:
Capite? Non poteva farla franca. Non doveva ingolosire un solo giorno di più gli sfruttati di tutto il Mondo. “Schiacciateli tutti, e terrorizzate tutti gli altri.” Eppure siamo ancora qui a parlarne, a leggerne e scriverne, in tutte le lingue del Mondo! Eppure di lì a neanche mezzo secolo si è accesa l’alta fiamma della Rivoluzione Russa, di cui la Comune fu luce guida espressamente! E se non fosse per le giuste le restrizioni dettate da questo assedio pandemico che subisce la gente di tutti i Paesi, per i centocinquant’anni dalla Comune il pellegrinaggio laico e proletario, libertario e internazionale a Parigi, Père-Lachaise, Mur des Fédérés, avrebbe dimensioni epocali, con tutte le istanze vecchie e nuove di emancipazione, di liberazione, di progresso, di giustizia. Compagne e compagni di quei giorni incredibili, non avete lottato invano! Proprio poco tempo fa, dinanzi all’ennesima dimostrazione (non ricordo più neanche quale) di smodatezza strumentale del combinato disposto tra quote rosa e politically correct, nauseato come per ogni smodatezza di successo (e di successo non a caso, giacché chi strumentalmente spaccia castronerie per battaglie di progresso e liberazione – controproducenti per gli aventi diritto e le loro cause, ma amen – ha mezzi e tempo e tenacia e canali per veicolarle presso il pubblico, e dàlli e dàlli elevarle a senso comune), ebbene avevo esagerato con le mie classiche previsioni fosche dicendo una cosa come “guarda tu se tra un po’ non arriveremo a non poter più manifestare un giudizio estetico riguardo non già a una persona, pratica ormai esecrata, ma pure a un manufatto, e guarda tu se tra un po’ non arriveremo anche a stuprare la cronistoria dei meri fatti dell’Arte, della Cultura e della Civiltà, in ossequio alla più idiota delle osservanze della parità di genere!”. Celiavo, amaramente.
Ma invece, notizia dell’altra settimana, sul serio un’istituzione di rango assoluto come la National Gallery di Londra, nella sua sezione ritrattistica, ha annunciato che “alla riapertura del 2023, dopo una lunga ristrutturazione da 40 milioni di euro [i mezzi e tempo di cui sopra] le donne, come artiste e come soggetti delle opere, avranno molta più rappresentanza, perché sinora alla National Portrait Gallery solo il 25% dei celebri ritratti del museo aveva protagonisti femminili, e va ancora peggio se si guarda il numero delle artiste donne tra le opere esposte: solo il 12% del totale.” [da Repubblica, 22.3.21] Io, basito. Perché se alle pareti della pinacoteca, usualmente, tre su quattro ritratti sono di soggetti maschili e uno solo rappresenta una donna, la causa risiede non certo nell’eventuale maschilismo di curatori e sovrintendenti bensì nel fatto incontrovertibile che nella Storia, dalle origini della ritrattistica ad oggi, le donne hanno purtroppo rivestito soltanto una frazione del bacino d’utenza degli artisti, sia per la loro collocazione del tutto minoritaria in ruoli passibili di durevole effigie sia per la ancor più minoritaria quota di donne che potessero pagarsi una tela firmata. E, di più, perché se le opere esposte usualmente in galleria sono per ben sette ottavi di mano maschile, di nuovo non è colpa di nessuno se non del fatto altresì incontestabile, per quanto triste, che ai mestieri dell’Arte furono avviati per la stragrande maggioranza uomini, anziché donne, per una quantità di motivi oggettivi. Ma un museo, per definizione, è della Storia che deve dar conto ai viventi, non di come essi vogliono che vadano le cose d’ora in poi: è l’essere (stato) il suo perimetro, non il dover essere (a venire) che invece attiene ad altre branche e attitudini dell’umano! Quanto a me, per esempio, lambiccandomi con la secolare vicenda della Pittura, che amo, ho per puro passatempo selezionato 333 Maestri occidentali tra il Duecento e il 2000, da Coppo di Marcovaldo a Jenny Saville – e peraltro mi dolevo di aver dovuto lasciare fuori moltissimi meritevoli, a mio modestissimo parere, la cui menzione però avrebbe superato il limite numerico che mi ero dato (eppoi perché non 500, o 1000, o 2000?) –, e sinceramente ho faticato a trovar spazio a una rappresentanza femminile di valore adeguato agli stretti parametri: sette infatti le pittrici del mio digesto artigianale, a fronte di 326 uomini, e sono (voglio ricordarle tutte) Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi, Berthe Morisot, Mary Cassatt, Natalija Goncharova, Frida Kahlo e Jenny Saville. Sette su trecentotrentatré, il 2% – quindi un sesto addirittura della proporzione della Gallery che ha fatto gridare allo scandalo questi “burocrati delle quote rosa” in campi dove la loro applicazione più ancora che offensiva (come sempre) è fanatica e demente (come ogni fondamentalismo). La loro decisione, leggo dall’articolo, non è estranea all’emozione suscitata dal barbaro omicidio di Sarah Everard da parte di un uomo di Scotland Yard. E io sono senza parole, indignato in prima persona per la nuova violenza che perpetra una contromossa culturale tanto idiota proprio alla memoria della donna assassinata! Sarà la professoressa Frigeri, dello University College di Londra (e chiare origini italiane) a guidare questa “rivoluzione” nel museo di Charing Cross Road, di fianco al corpo principale della National che notoriamente prospetta su Trafalgar Square; afferma: “L’aspetto visivo è importante. Celebreremo le donne nel passato e nel presente. Con la speranza che un giorno le ragazzine che visiteranno la galleria vedranno sempre più ritratti di donne e si sentiranno molto più sicure di sé!” [ibidem], e sembra addirittura seria nel dirlo. Insomma: non conta più la bellezza di una forma artistica – pare – ma conta il sesso (o altri requisiti) di chi l’abbia firmata. Anzi, “bello” è concetto assai poco politically correct: dappertutto, vedrete! …Non vogliamo più la musica di Wolfgang Amadeus Mozart, vogliamo ascoltare le composizioni di sua sorella Nannerl! (– Ma… avrà scritto qualcosa? – Un lied, manoscritto introvabile tra l’altro, ma che c’importa? Quote rosa nella Musica Classica!) Basta con Socrate nei dialoghi di Platone, vogliamo sentire la voce di Santippe! (– Ma Santippe l’autore non la menziona proprio… – Ebbe’? Troveremo qualcosa di scritto dalla moglie di Platone! Quote rosa nella Filosofia Antica!) Mi spiego? Le donne di oggi e domani così non hanno e non avranno, invece, alcun beneficio né ausilio alla lotta sacrosanta per i propri diritti (come invece se, per esempio, con i soldi spesi per la ristrutturazione espositiva si fossero date borse di studio e creati percorsi formativi di eccellenza e spazi strutturati di libero incontro e confronto autonomo per aspiranti artiste – tanto per dirne una), e per di più questa china di fanatismo può alla lunga portare ad atti simili ai noti e mostruosi per mano dell’integralismo politico o confessionale (ottusi quanto quello sessista e quello razzista): dalla “damnatio memoriae” degli antichi faraoni, imperatori e satrapi, al bando delle Olimpiadi pagane, dal “falò delle vanità” di savonaroliana memoria, alla distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei taliban iconoclasti (quasi esattamente venti anni fa, ricorderete). Tutto, sempre, di quanto più sbagliato, giustificato con la più buona delle ragioni, apparenti. Fateci caso. ULTIM'ORA, quasi sull'argomento (e comunque su quello più ampio della pessima interpretazione concreta di un corretto principio femminista). Per delibera del CdA dell'Università di Siena è stato sospeso dalla docenza e dallo stipendio per tre mesi il professore che aveva appellato duramente Giorgia Meloni in una trasmissione di commenti politici in onda su Controradio. Cosa opinassi sull'accaduto l'ho scritto subito qui, e lo confermo. Aggiungo due pensieri: la convinzione personale che se anziché una piccola radio privata e antagonista, ad ospitare le parole del professor Gozzini fosse stato un grande e seguitissimo talk-show su TV generalista (pubblica o privata), il CdA senese non avrebbe fatto un bel niente perché Gozzini sarebbe diventato sic et simpliciter una star (come tanti altri figuri partoriti dalla televisione da troppi anni proprio perché la loro intemperanza diventasse marchio di fabbrica e attrattore di audience e inserzionisti, e alcuni di loro hanno una fiorente carriera politica in atto); e la sintesi estrema con cui voglio chiosare tutta questa pagina: VE LA MERITATE GIORGIA MELONI! Non sentiamo dire quasi altro, sin dalle origini, dal PD venerando e terribile – quasi: infatti l’altra cosa che sentiamo dire più di recente è “parità di genere” –; ma oltre queste due petizioni di principio (in senso semi-tecnico: sono espressioni che non esprimono nulla di davvero politico), non gli sentiamo dire niente che lo qualifichi come un partito di sinistra (poiché temi come ius soli e anti-omofobia sono da partito semplicemente civile: incivili sono gli altri, contrari) né come un partito con un determinato programma (poiché al di là di proposte-spot, ciò che manca è una vision e la dimostrabile idoneità a reificarla), e neppure che possa invogliare tanti cittadini qualsiasi a riconoscervisi, votarlo, sostenerlo, farne parte attiva (con l’eccezione scontata di quei cittadini più qualsiasi degli altri che nel PD o dal PD trovano fonte di risorse materiali – ma questa non è politica, bensì collocamento&affari).
Allora, volendo io prendere sul serio ciò che ascolto, vado a verificare se questa vocazione maggioritaria (che, ripeto, non significa nulla quanto alla posizione politica – figurarsi ideologica! – del partito) abbia almeno aderenza rispetto alla reale cronistoria dei fatti. Ma no, non ce l’ha. Il PD si è presentato ormai a ben sei test elettorali generali, tre elezioni politiche nazionali e tre europee, nell’arco di dodici anni dal 2008 al 2019; e i suoi risultati danno una media di poco più di un quarto dei voti validi espressi: precisamente 29.9% alle chiamate continentali (dato “drogato” dal 40.7% del 2014, vero unicum e misterioso della storia PD), e 25.8% alla Camera dei Deputati (con una tendenza inesorabile al declino più rapido: -7.9% tra 2008 e 2013, -6.5% tra 2013 e 2018!). Inoltre nelle due consultazioni più recenti (2018 Italia e 2019 Europa) ha preso, in termini assoluti, qualcosa in più di 6 milioni di voti appena, su un bacino elettorale di circa 50 milioni (!) di aventi diritto; e infine la teoria dei sondaggi degli ultimi 6-12 mesi lo danno tra il 20% e il 15%, in regressione oscillante, soltanto terza o addirittura quarta forza sulla scena politica (dopo Lega, sempre, e dopo M5S o FdI o entrambe). Se la cava bene solo nei confronti di ForzaItalia, altro fossile politico dell’èra berlusconiana in cui (e a ragione della quale) il PD vide la luce. Morale: se la vocazione originale poteva anche esser genuina, poi alla prova dei fatti è mancata e manca la capacità per intercettarla, la maggioranza dei consensi del Paese – questo lo si può dar per assodato. E lo sa il partito per primo, ovviamente, se è vero che le convulsioni che lo scuotono ininterrottamente dall’inizio hanno prodotto il tritacarne dei Segretari, che dal fondatore Veltroni all’attuale Letta si sono succeduti in numero di otto in manco quattordici anni! (Per confronto: i DS, una delle due sorgenti del PD, in quasi dieci anni di Segretari ne avevano consumati solo tre; la Margherita, l’altra fonte, solo un Segretario – Rutelli – in cinque anni; il PDS, antesignano dei DS, due Segretari in sette anni; e il PCI… be’, non bestemmiamo.) Quindi, hai voglia a cambiare il timoniere e hai voglia a pareggiare i generi nelle cariche di partito, Parlamento e governo! Il PD non ha “sfondato” e, letta in serie storica oggettiva la sua vicenda, non sfonderà mai più: semplicemente non è stato, non è e non sarà il “grande partito progressista” o laburista o socialdemocratico (chiamiamolo come ci pare) che all’Italia manca e che invece è presente in tutte le altre grandi democrazie europee, e occidentali, e ormai anche in altre zone della geopolitica mondiale. Il che è pure abbastanza naturale: non basta certo “un grande avvenire dietro le spalle” (parlo della tradizione della sinistra politica e sindacale in Italia risalente addirittura ai primi del ‘900, protagonista poi di Resistenza e Liberazione, quindi della stesura della Carta Costituzionale, e dopo delle stagioni migliori nella costruzione dell’Italia Repubblicana e delle sue grandi riforme civili, giuridiche, economiche, sociali e culturali), se non è sorretto, nutrito e rinnovato sempre da una linea strategica e programmatica chiara e comprensibile, da un agire concreto coerente e visibile, e da quadri e leadership che tutto questo sappiano incarnarlo, animarlo e rappresentarlo con competenza e coraggio (che in Italia, a sinistra, non si vedono dai tempi di Berlinguer). In compenso, però, questo partito non-mai maggioritario sullo scenario complessivo, lo è stato ed è maggioritario in quello ristretto al campo delle sinistre tutte (moderate, radicali, chic, peones...), occupandone variamente una quota tra il 75% e il 90% dei voti espressi (o delle opinioni sondate) e lasciando il restante a sigle che negli anni si sono succedute, accorpate, scisse (Rifondazione, PdCI, Arcobaleno, FdS, SEL, RC, AE, Fed.Verdi, LeU, PaP, laS, PC, Art.1… ne parlo altrove), con altrettanto implacabile destino globale di estinzione. In altri termini: il PD, come una stella neonata (nana gialla, a prescindere dall’hybris teorica di essere una gigante rossa) ha attirato per gravità (ereditandoli perlopiù) alcuni milioni delle simpatie disponibili a sinistra, e ha spazzato col suo vento elettromagnetico (la "vocazione", pronta a ogni intesa più innaturale – e ci angustierebbe ri-enumerarle qui) tutto il panorama progressista del Paese in modo tale che né alla sua sinistra si è costituita una forza stabile degna di questo nome (come in un sistema stellare binario vitale), né la stella principale ha fermato l’emorragia di materia ed energia (gli iscritti, i voti) in corso da sé medesima – la gente di sinistra in Italia, semplicemente, è andata sempre più ingrossando le quote dei delusi, come chi ha abboccato alla demagogia anti-partitica (i folgorati da Grillo in primis), e del non-voto, quelli resi indifferenti dall’impasse cronicizzato (tra il 35% alle Politiche e il 45% alle Europee, sugli aventi diritto, sono ormai gli italiani che non si esprimono più per nessun partito – e tanta, troppa, è gente nostra). Tirando le somme, il PD è stato un progetto nato (supponiamo pur nobilmente) per provare a respingere l’assedio delle armate tardoberlusconiane all’impianto costituzionale della vita del Paese (che tormentavano già dal 1994). Poi, superata l'Italia quasi subito quella stagione (non per merito del PD), ha provato in corsa a diventare un altro esperimento: il soggetto che si occupa di passare dalla difesa al contrattacco nella realizzazione di quell’impianto di democrazia col favore della massa – ma lo dichiaro qui io, pieno di buoni pensieri, perché il PD in quanto tale nemmeno questo ha mai detto schiettamente (come ricordavo in apertura) –, però l’esperimento è fallito; ormai lo si può affermare in scienza e coscienza. Il grande partito socialdemocratico in Italia non nascerà finché il PD esiste e rivendica un ruolo di primato nel quadrante progressista, o – in subordine – non nascerà un partito di media grandezza di sinistra radicale da affiancarsi al partito medio di sinistra moderata finché in Italia il PD esiste e disincentiva per questo solo fatto milioni di uomini e donne a por mano alla sua costruzione (confusi e infelici già per la bizzarre traiettorie delle siglette di cui sopra). Io ho finito. A voi trarne le logiche conclusioni. Tutti contenti, da che è ufficiale la candidatura di medici e paramedici e ausiliari e volontari italiani al Nobel per la Pace, per il servizio prestato in corso di pandemia e le perdite subite eroicamente.
Le bandiere tricolori son già pronte a sventolare, e vada come vada a Oslo (dove si assegna il premio), questo è già un grande onore per tutti e sessanta milioni quanti siamo! Sì? No. Perché in ogni Paese questa pandemia ha avuto, ha e ancora avrà finché dura, tre protagonisti "personali" (virus infame e povere cavie a parte, cioè): i medici (e personale vario), il comando (politica, amministrazione, economia, media), la gente comune (come me e voi). Ebbene, è matematico: se per abnegazione e bravura è candidabile al Nobel il personale sanitario di un Paese che ciononostante è terzo al Mondo per rapporto morti/infetti e terzo al Mondo per rapporto morti/abitanti, allora vuol dire che senza quella bravura e quell'abnegazione da premio Nobel, ossia se qui medici e simili non si fossero comportati e non si comportassero tanto bene, l'Italia starebbe addirittura in cima a entrambe le graduatorie negative! Ma ciò si spiega solo se dei tre protagonisti, gli altri due (la gente e il comando) si sono comportati invece molto male. Ed è proprio così, infatti. Guardatevi intorno, ripensate all'anno trascorso; guardateli in faccia mentre parlano spudoratamente. Guardiamoci dentro. Quest'onore della candidatura, quindi, è soltanto loro: di medici, infermieri, e operatori comunque sul campo della tutela della salute. Non vi azzardate a intestarvelo, se non state – così come non ci sto io – in trincea da un anno e più. E soprattutto non vi azzardate a usarlo per coprire le vostre incapacità, o peggio le vostre nefandezze, se siete parte a un qualche titolo (politico, amministrativo, economico, mediatico) della catena di comando da un anno a questa parte! Arrotolate dunque le vostre bandiere, riponetele dove non le veda. Logico, pulito. Almeno questo. |